Isaia 50,4-7; Filippesi 2,6-11; Luca 22,14 – 23,56 Alla tavola dove Gesù mangia con i suoi discepoli non si consuma un cibo qualsiasi: è in gioco la vita stessa di Gesù e di coloro che lo hanno seguito per tre anni nella sua vita pubblica. È un cibo intriso di relazioni forti e intime, ma che al momento della salita sul calvario si sciolgono. A quella tavola Gesù chiederà di ritornare costantemente: è la tavola dell’Eucaristia. Si potrebbe affermare che l’intera vicenda del cristianesimo è riconducibile proprio a questa tavola. Segnerà il passo anche nel dopo-risurrezione di Gesù partendo proprio dal cibo che lui stesso prepara e il suo corpo come carne risorta che invita lui stesso a toccare. L’intera scena evangelica di questa Domenica delle Palme, raccontata dall’evangelista Luca, fatica a stare a tavola con Gesù: il suo essere presente, il suo corpo, il suo dirsi è d’intralcio, è un cibo indigesto. Certamente tante altre volte Gesù avrà mangiato con i suoi discepoli ma questa volta è diverso. Non dà un cibo qualsiasi ma dona se stesso. Non offre, ma si offre. Ma tutto ciò non viene capito, compreso, accolto. I discepoli per primi entrano in contrasto tra loro sulla reciproca superiorità: non comprendono che per essere grandi è necessario nutrirsi del Cristo e non di se stessi. Tale contrasto li porterà al digiuno più completo sino a realizzarsi nell’abbandono e nella fuga. La nostra vita spirituale sarà sempre viva e autentica se non avrà mai la presunzione di autosufficienza e di predominanza sugli altri, sulle cose e su Dio. Il dire “Chi fosse tra loro il più grande” equivale ad essere ciechi e perdere l’orientamento del proprio essere e agire. Se ci si domanda come mai il cuore della vita di una comunità cristiana sia da ritrovarsi nell’Eucaristia quotidiana, la risposta è in quella tavola attorno alla quale Gesù ha convocato i suoi discepoli e perpetua oggi per ogni uomo e donna. Questa domenica delle Palme ci chiede di non stare a guardare inteso come attesa che qualcosa che prima o poi cambierà. Tutta la Scrittura ci attesta che i cambiamenti radicali nella vita delle persone sono avvenuti quando non si è scappati, ma si è rimasti al fianco di chi c’ha amato e accolto. È una salita in solitaria quella di Gesù verso la croce, come solitaria è stata la sua nascita in quella grotta di Betlemme. Ma questa solitudine sarà colmata da nuovi volti inediti. Verso il calvario Gesù di Nazareth troverà nuovi amici e fratelli che erano lì ad attenderlo: il centurione, i ladroni, le donne. Come non pensare alle tante persone che cercano Dio e lo incontrano nella via del dolore, della sofferenza, della fatica di vivere e di credere. Le nuove vie verso il calvario sono presenti nelle mappe delle nostre città e paesi. Ma non sono vie senza uscita. Sarà proprio Gesù a squarciare definitivamente l’oblio della morte fine a se stessa con la sua risurrezione. Il nostro occhio non vede bene se non con lo sguardo del risorto. Nelle prossime giornate della Settimana Santa prendiamoci dell’abbondante tempo personale per riflettere, meditare e pregare. Il Triduo Pasquale è il cuore della fede cristiana: non ci si arrivi di corsa, sbadatamente, superficialmente. La Settimana Santa ci chiede di lasciarci invitare a tavola, non per vivere quella nostalgia dei tempi passati, ma per iniziare a pregustare la gioia della vita nuova che in Cristo si manifesta in forma sublime. Questi “giorni santi” siano proprio diversi (santo in ebraico vuol dire diverso, separato, messo da parte per un compito preciso). Tempo propizio per fare una verifica della propria vita, del servizio pastorale in parrocchia, dell’essere sposi e genitori, figli e fratelli, sacerdoti e pastori. È una Settimana che ci chiede di guardare in alto a “Colui che hanno trafitto” non per rimarcare la compassione, ma per ritrovare la giusta direzione alle scelte, alle azioni, alle parole. Giacomo Ruggeri