Isaia 43,16-21; Filippesi 3,8-14; Giovanni 8,1-11 Da un padre che getta le braccia al collo del suo figlio, l’uomo, a una figlia che si sente amata nel suo non-amore. Con il tassello della quinta domenica di Quaresima, ultima tappa prima dell’inizio della Settimana Santa e dell’evento pasquale, il quadro di chi è Dio per l’uomo giunge a compimento. Gesù di Nazareth scaglia l’incapacità ad amare addosso a coloro che sono capaci di porre la giustizia al centro della loro vita. Ed è proprio con i sentimenti più belli che si commettono le cose più obbrobriose. A quel momento degli Ulivi, luogo di annientamento, spogliazione e verità interiore, Gesù vuole condurci scribi, farisei e noi tutti. Ma sa bene che facciamo fatica ad andargli dietro e a seguirlo; sa bene che quel momento lo vivrà da solo. Sola come è la donna nella sua umanità: prima usata e poi gettata. Quante giovani ragazze (a volte bambine) europee e africane vengono portate in Italia con l’inganno e poi costrette a subire l’umiliazione della prostituzione. Sono oltre 100.000 ha detto ultimamente don Benzi. La voglia di giustizia è insita nell’uomo ed è nella sua motivazione e modalità che si sbaglia a far centro. Gesù, al termine della scena evangelica, pur non esplicitandolo è contento di ciò che è accaduto perché gli ha dato modo di smascherare la falsa voglia di giustizia presente negli scribi e nei farisei. Così nelle relazioni quotidiane: quando ci imbarchiamo in una sorta di “giustizieri in nome della fede” fermiamoci e pensiamo a questo brano di Giovanni al capitolo 8. Il cristiano, più che farsi giustizia da solo con tutte le errate e distorte diciture del termine giustizia! è chiamato a far risplendere e brillare quella di Dio, ma non in nome suo come si prende un bastone in mano per possederlo. Quei massi lasciati dagli scribi ritornano scagliati al mittente, ma non in nome di Dio (come se lui volesse ciò), ma come prodotto finale del loro stesso agire. Più consapevole è l’azione più è forte il colpo che si riceve: “Cominciando dai più anziani”. Quella donna posta nel mezzo diviene, suo malgrado, specchio per chi l’ha condotta sino a lì. Quello specchio Gesù non lo rompe, ma lo pulisce, lo ama, lo ammonisce. Ne fa preziosa occasione di catechesi di strada. E pensiamo, pertanto, alle tante occasioni di catechesi di strada che la vita quotidiana offre e che non verranno, forse, mai vissute all’interno di quell’ora, di quel giorno e di quello spazio nei locali della parrocchia e dell’oratorio. Se si pensa di cambiare modalità nel fare catechesi senza cambiare e convertire le fondamenta della pastorale nella sua integralità, si farà un buco nell’acqua. E i primi a pagarne le conseguenze sono i bambini, gli adolescenti, i giovani. Al centro dei consigli pastorali, delle riunioni di comunità in monasteri e conventi, nelle equipe di educatori e catechisti va posto il desiderio di edificare il Regno di Dio e la comunità tutta, più che la difesa ad oltranza delle proprie posizione. Perché se così fosse la differenza tra questo atteggiamento e quello degli scribi è inesistente. Gesù non dice: “Chi di voi che non è capace di amare”, ma “Chi di voi pensare di sapere come amare…”. E non è una differenza da poco. Nella vita di comunità, in famiglia, a scuola, negli ambienti di lavoro sappiamo tessere assieme quella novità di amare che non è prerogativa di nessuno, ma che nasce dall’incontro e condivisione della propria vita. Viene da chiedersi: avranno capito quegli scribi e farisei che è bene per loro lasciare la pietra del male e seguire il bene che è Gesù? Dai fatti che accadano nelle successive ore, non sembra andare così. Facciamo in modo di non ripetere, in questi stessi atteggiamenti, la storia di allora nella storia di oggi. Scriviamone un’altra, perché è possibile grazie a quel continuare a scrivere di Gesù per terra, ovvero, con l’uomo.
Giacomo Ruggeri