Geremia 1,4-5.17-19; 1Corinzi 12,31-13,13; Luca 4,21-30 Le parole scomode sono quasi sempre quelle che vengono pronunciate nel proprio ambiente. Si è più facili profeti all’estero che in casa propria. Lo è stato anche per Gesù e non a caso è morto fuori di Gerusalemme. Ma chi è il profeta? La Bibbia ci presenta i profeti come uomini con delle caratteristiche ben precise: persone di fede, uomini di Dio, che guardano lontano e invitano ad avere lo sguardo oltre il presente, persone che pregano, che mettono il dito nella piaga, che gridano l’ingiustizia. Persone non accomodanti, scomode. I profeti – e questo è un aspetto fondamentale – portano e annunciano un messaggio non proprio, ma di Dio. Non sono venditori della propria mercanzia e nemmeno imbonitori di facili successi, ma sono intagliatori della sapienza divina. Amano l’onestà perché di essa vivono, sono difensori dei deboli perché la loro voce non venga mai meno, la maggior parte dei loro verbi sono al futuro perché sanno che Dio è fedele e non verrà mai meno alle sue promesse. Nelle nostre parrocchie, monasteri, associazioni, gruppi ecclesiali e movimenti chi sono oggi i profeti con tali caratteristiche? Una comunità senza profeti rischia la cecità e la sordità. Nel Vangelo di Luca, al capitolo quarto, Gesù dice ai dottori della legge, ai sommi sacerdoti e ai farisei presenti nella sinagoga che sono lebbrosi, senza una discendenza e lo saranno per sempre. Essere nella sinagoga pensando di essere nel giusto ma l’interiorità e il cuore sono bianchi di lebbra. Gesù punta il dito proprio nella non accoglienza del cuore, anche se i gesti esterni lasciano intendere tutt’altro. Ma non dimentichiamo Dio guarda il cuore, non l’apparenza ed è cosa buona anche per noi fare altrettanto. Il fatto stesso di non stupirsi – rimarcato con l’espressione “non è il figlio di Giuseppe?” – è simile a una lebbra che rende la carne morta, le relazioni abitudinarie, i gesti senza significato. I sacerdoti del tempio, i dottori della legge e i farisei vogliono uccidere Gesù perché si sono sentiti additati come persone malate e difficili da guarire. Le parole scomode aiutano a ritornare in vita, ad essere veri e autentici, sempre se vi è desiderio di guarigione e riconoscimento della malattia. È un Vangelo, quello odierno, che aiuta a rivedere le relazioni nella prospettiva della vedova in Zarepta di Sidone e del lebbroso Naaman il Siro. Ma chi sono questi due personaggi, perché Gesù indica loro come riferimento ed esempio? L’essere vedovi e lebbrosi significava l’estromissione dalla società, dalle relazioni normali. Ma sia la vedova che Naaman erano pagani, non giudei, si sono messi in ascolto dei profeti, hanno ascoltato le loro parole, si sono fidati. Così Gesù come Elia ed Eliseo è inviato non per i soli giudei, ma per tutti. La testimonianza della fede cristiana non può conoscere né confini né barriere. La testimonianza è resa cristiana dal suo carattere missionario. Attenzione, pertanto, ai caldi ritrovi delle proprie realtà ecclesiali, al temere di fare scelte per timore di essere impopolari. Non ci si trinceri dentro le mura della chiesa perché ben presto si diventerà lebbrosi e vedovi. La medicina è nell’uscire, nel relazionarsi a 360°, nel porsi in ascolto di quei profeti che spezzano la parola, additano l’eterno, scelgono Dio come padre. Se vogliamo che il cristianesimo non ripieghi in se stesso, dobbiamo suscitare nelle giovani generazioni il gusto e il desiderio di essere profeti. È vero anche che è Dio a rendere profeta, ma è altrettanto vero che l’uomo è aiutato a guardare oltre con gli occhi divini dalle persone che ha accanto. Si riconosca il desiderio di essere guariti e visitati dal profeta: la lebbra dell’autosufficienza e la vedovanza della banalità non troveranno mai posto nell’uomo e nella donna di Dio. Giacomo Ruggeri