III di Avvento – 17 dicembre

Sofonia 3,14-18; Filippesi 4,4-7; Luca 3,10-18 Siamo più vicini al Natale. Questa terza domenica di Avvento ci annuncia la gioia per la venuta del Salvatore. Gioisci, rallegrati sono le parole che introducono alla Messa della domenica, perché “in mezzo a voi è il Santo di Israele, il Signore!”. Il Battista continua la sua predicazione nel deserto. Molti vengono a chiedergli: “Che cosa dobbiamo fare?”. Ovviamente per essere pronti ad accogliere il Messia. Giovanni risponde: “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”. Ai pubblicani risponde (erano esattori): “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”. E ad alcuni soldati: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe”. Tutto sommato, il mondo da allora non è molto cambiato. C’è chi di tuniche, oggi, ne ha molto più di due, ma esistono ancora milioni di uomini e di donne che non ne hanno nessuna. Il Papa è tornato di recente a parlare del dramma della fame che affligge ancora gran parte del mondo, pur vivendo noi nella società del benessere e dell’abbondanza. Per un altro verso, ci sono ancora ingiustizie all’interno della stessa società dei consumi: chi evade le tasse e chi ne paga fin troppe. Chi approfitta della sua posizione politica o sociale per prevalere sui deboli o sui meno fortunati. Il Battista predica una “novità di vita” che sarà poi al centro del Vangelo, per instaurare nel mondo la giustizia, l’amore e la solidarietà. La folla andava domandandosi se Giovanni fosse lui il Cristo. Il Battista rispondeva che dopo di lui sarebbe venuto “uno più forte”, al quale, diceva: “Io non sono degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali”. Una bella lezione di umiltà da parte del Precursore, ma anche di verità. Egli è venuto solo per rinnovare l’attesa di Israele. Tutti i primi capitoli del Vangelo di Luca sono intrisi di questa attesa: da quelli dell’anziano Simeone alla profetessa Anna, agli ascoltatori del Battista. L’oggetto dell’attesa è sempre lo stesso: il Liberatore, il Cristo. Colui che Dio ungerà con l’unzione di sacerdote, re e profeta. In questa attesa ci si deve preparare con un cambiamento di vita, la conversione di cui il battesimo è un segno esteriore. E, in realtà, la gioia della venuta è solo possibile attraverso la condivisione dei propri beni, con l’attenzione per il povero e per l’oppresso, collegando cioè la linea verticale dell’impegno della fede con quella orizzontale dell’impegno sociale. Anche al Convegno di Verona è stata ribadita la necessità che i cristiani portino l’annuncio del Vangelo nella società di oggi con la loro testimonianza: più fatti e meno parole. Giovanni diceva: “Io vi battezzo con acqua, ma viene uno che vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. Il battesimo del Precursore non poteva cancellare il peccato né dare la grazia. Questi due effetti li avrebbe prodotti solo il battesimo che Gesù ha affidato ai suoi discepoli: “Andate e battezzate”. È infatti un battesimo che purifica come il fuoco, poiché toglie, a chi è pentito ogni genere di peccato. Ma produce nell’anima molto di più, poiché lo Spirito Santo introduce il battezzato nella stessa vita di Dio, gli fa dono della grazia soprannaturale. Con il battesimo siamo chiamati “figli di Dio”, poiché lo siamo realmente, come tralci – ha detto Gesù – uniti alla vite. È una realtà che rischiamo spesso di dimenticare e che fonda la nostra dignità e la possibilità che abbiamo di chiamare Dio con il nome di Padre. D’altra parte è per questo che tra noi, battezzati, siamo tutti fratelli. Sentiamo di esserlo non solo a Natale, ma ogni giorno. Con spirito di amicizia e di solidarietà verso tutti, senza distinzioni. Carlo Caviglione