“Ne uccide più la lingua che il Covid”. È il titolo del libro nel quale la giornalista Romina Gobbo analizza il modo in cui i media hanno trattato la pandemia di Covid nel primo periodo quando, spiega l’autrice, “si è registrato un utilizzo massiccio del linguaggio bellico”. Intento del libro, afferma Gobbo, “è stimolare in senso più ampio una riflessione sul linguaggio giornalistico. Nel caso specifico la domanda era: ricorriamo al linguaggio militare perché il nostro lessico è povero, oppure c’era una intenzionalità, per esempio nel creare tensione fra la popolazione?”. Passando in rassegna i vari discorsi del premier Conte, del suo omologo inglese Boris Johnson o del presidente francese Emmanuel Macron, del collega statunitense, Donald Trump, così come i titoli dei media di quel primo periodo, tutti sono pieni di termini quali “assedi”, “artiglieria”, “trincee”, “task force”, “nemico”, “armi, “combattere”. “Il libro – rimarca la giornalista – non ha la presunzione di dare risposte, anche perché davvero bisognerebbe andare a verificare testata per testata se c’erano ‘ordini di scuderia’, ma di stimolare una riflessione in ambito giornalistico e non solo, di accendere un dibattito su come certi fatti vengono narrati dai media”.
“Il giornalista davvero deve chiedersi che tipo di professionista vuole essere. Uno che crea il panico o uno che approfondisce? Uno che predilige la forma o il contenuto?”. Per Gobbo “non si tratta di scrivere ‘buone notizie’, ma di come si scrivono le notizie, di come vengono verificate le fonti. La credibilità della professione giornalistica si gioca su questo. D’altra parte, il libro non è solo per gli operatori dell’informazione, anzi. Anche il lettore deve sentirsi chiamato in causa, deve sentirsi sollecitato ad esercitare il proprio spirito critico. Perché l’informazione è affare di tutti”. Il libro è scaricabile da Amazon in formato e-Book e cartaceo.