Osea 6,3-6; Romani 4,18-25; Matteo 9,9-13
Dobbiamo ancora lamentarci di molti aspetti negativi nella vita della Chiesa, ma un progresso positivo è stato fatto, certamente, nei rapporti con le altre confessioni cristiane e, persino, con le religioni pagane. Si nota una diffusa apertura di mentalità, cresciuta dopo il Concilio che ha quasi segnato un salutare ritorno allo spirito del Vangelo. INSIEME AI PECCATORI. Matteo è un pubblicano, un peccatore, uno che estorce le tasse dalle tasche degli ebrei per darne i profitti ai romani. È un escluso. Gesù però si ferma da lui, al banco delle imposte, e lo invita a seguirlo. Sarà uno dei dodici e il primo degli evangelisti. Sapeva infatti bene leggere e scrivere. Subito scatta la critica nei confronti di Gesù: “Il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori. Perché?”. Pronta ed esplicita la risposta di quel Maestro. Non aspetta che siano i suoi discepoli a prendere le sue difese. Risponde in prima persona: “Udì e disse: non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”. Una doccia fredda per i suoi interlocutori. Non avevano ancora sentito un profeta parlare così, o forse avevano dimenticato Osea, e le parole dette da parte di Dio: “Io voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti!”. SANI E MALATI. L’umanità non è fatta tutta di giusti, lo sappiamo benissimo, ma neppure sono tutti peccatori. Gesù l’ha paragonata ad un campo in cui crescono insieme il grano e la zizzania. I giustizialisti si ergono spesso a reclamare, per chi ha sbagliato, una giustizia immediata. Vorrebbero che il mondo fosse ogni giorno ripulito di ogni delitto, redento da ogni violenza. Non si rendono conto che, loro stessi, alzandosi a giudicare gli altri, sono loro stessi dei poveri peccatori. Prima della giustizia viene l’amore e la prima parola pronunciata da Benedetto XVI è stata “perdono”. Il Papa ha detto che non si potrà giungere alla pace dei popoli senza il reciproco perdono. Misericordia dunque e non sacrificio. Il perdono infatti è l’espressione più sublime della giustizia, quella compiuta ed espressa da Gesù, dall’alto della croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Ed è una categoria di peccatori molto diffusa anche tra noi: quella di coloro che, anche oggi, “non sanno quello che fanno”. GIUSTI E PECCATORI. Esistono certamente gli uni e gli altri. Non sta però a noi giudicare. Non siamo chiamati a ritenere nessuno meno degno di noi. La Chiesa ci insegna a recitare il “Confiteor”, con il quale dichiariamo ogni domenica di “aver molto peccato, in pensieri, parole e opere”. Ce n’è per tutti e noi ci riteniamo, umilmente, peccatori. Se poi, non per merito nostro, abbiamo qualche particolare posizione nella Chiesa e nel mondo, questo fa crescere la nostra responsabilità. In particolare verso quelli che sono o hanno meno di noi. Ovviamente non in dignità, ma nel possedere in minor grado beni spirituali e materiali. In questi casi, misericordia significa anche carità e condivisione. La parola stessa indica “avere cuore per chi è misero”, verso quei nostri fratelli, bisognosi, che possono avere da noi un aiuto per reggere alle difficoltà della vita. Si tratterà in sostanza di avere come modello il Figlio stesso di Dio, che si è fatto nostro compagno di strada. Nostro fratello. Carlo Caviglione