Sono passati cinquant’anni dall’istituzione delle Regioni a statuto ordinario e la ricorrenza è venuta a cadere in un momento in cui il dibattito sul loro ruolo è diventato di strettissima attualità. Non è certo tempo di celebrazioni retoriche. Può invece essere utile staccarsi per un istante dalla cronaca quotidiana per cercare di capire le radici storico-politiche dei problemi che sono emersi in questi mesi drammatici per il Paese. Proviamo a farlo con uno studioso tra i più autorevoli, Paolo Pombeni, che è insieme storico e analista dei sistemi politici.
Le Regioni a statuto ordinario sono previste dalla Costituzione e la loro istituzione è avvenuta soltanto nel 1970. Perché tutto questo ritardo?
Soprattutto per ragioni politiche. C’era la previsione, poi rivelatasi fondata, che alcune Regioni sarebbero finite nella disponibilità dei partiti di sinistra, e per questo motivo i governi di allora cercarono di posticiparne il più possibile l’istituzione, anche se questo impegno compariva regolarmente nei loro programmi. A questo fattore politico va aggiunto il peso delle ambizioni centralistiche delle amministrazioni romane che vedevano come il fumo negli occhi la nascita delle Regioni. A sbloccare la situazione contribuì sicuramente la presa di posizione critica del Pci nei confronti dei fatti di Praga nel 1968 che, almeno a livello interno, fece acquisire a quel partito qualche punto in termini di affidabilità.
Dopo l’istituzione che cosa avvenne?
Ci fu il periodo molto interessante della stesura degli statuti regionali, diciamo tra il 1970 e il 1975. E’ vero che ogni Regione ha lavorato un po’ per conto suo, ma in alcuni casi – penso alla Lombardia e all’Emilia Romagna – si sono realizzate delle piccole operazioni costituenti attraverso l’incontro tra la tradizione politica cattolica, che era storicamente regionalista, e quella comunista, che regionalista era diventata per evidenti motivi politici. In origine Togliatti e Nenni erano fortemente contrari alla nascita delle ‘repubblichette’. Non bisogna dimenticare che l’inserimento delle Regioni nella Costituzione non è stato un passaggio agevole, anzi. Decisiva è stata l’esperienza delle autonomie speciali la cui istituzione era motivata dalla necessità di dare risposte a questioni aperte e ineludibili. Mi riferisco in particolare alla Sicilia, con le tensioni di tipo secessionista, al Trentino-Aldo Adige, per il nodo dei rapporti con l’Austria, e alla Valle d’Aosta, dove c’erano comunque problemi di confine. In una certa misura si può dire che le Regioni a statuto ordinario sono state entrate nella Costituzione anche perché dovevano essere istituite quelle a statuto speciale.
Lei ha fatto riferimento alla tradizione regionalista dei cattolici e il pensiero corre subito a Sturzo. Nel dopoguerra, però la Dc ha frenato a lungo il processo di regionalizzazione.
Hanno pesato i timori a cui ho accennato per un probabile successo delle sinistre in alcune aree, ma anche la consapevolezza di essere diventato il partito di maggioranza e di non avere quindi più bisogno delle Regioni per trovare spazi politici autonomi.
Ma l’elaborazione degli statuti regionali e la configurazione del regionalismo italiano ha visto i cattolici in primo piano.
Penso a Piero Bassetti ed Ermanno Gorrieri, rispettivamente in Lombardia ed Emilia-Romagna, ma non va assolutamente dimenticato il contributo fondamentale del trentino Bruno Kessler.
Qual è stato l’impatto dell’istituzione delle Regioni sul sistema politico nazionale?
Le Regioni hanno avuto, per così dire, un grande successo. La classe politica ha scoperto che si aprivano nuovi spazi soprattutto per i partiti esclusi dal governo centrale. Per essi si presentava anche l’occasione di dimostrare di avere una capacità di governo non solo in ambito municipale. Ma tutti i partiti si resero conto che con le Regioni si allargava la possibilità di distribuire dividendi politici.
Come si è arrivati alla riforma costituzionale del 2001, a cui molti commentatori attribuiscono la responsabilità dei conflitti tra Stato e Regioni nella gestione della pandemia?
La molla più rilevante è stato il tentativo di dare una risposta alle forti pressioni della Lega che cavalcava slogan secessionisti. Era il tempo di ‘Roma ladrona’, in un certo senso una prima forma di populismo. Si è fatta largo l’idea un po’ ingenua che dando più autonomia alle Regioni si sarebbe bloccata la spinta leghista al Nord e allo stesso tempo i partiti tradizionali ne avrebbero beneficiato al Centro-Sud.
E invece?
Innanzitutto non sono state disegnate bene le competenze dello Stato e delle Regioni, soprattutto nelle materie in cui è stata prevista una sorta di co-gestione. Le Regioni, poi, sono diventate dei percettori di finanziamenti statali a piè di lista e di fatto non ne rispondono perché i cittadini continuano a individuare soprattutto nello Stato il responsabile di tutto. Un altro profilo problematico è nella mancanza di un equilibrio tra uniformità e differenze. I ‘livelli essenziali delle prestazioni’, che dovevano assicurare il principio costituzionale della parità di trattamento di tutti i cittadini, sono rimasti molto teorici, soprattutto nel campo sanitario che investe l’80% delle risorse regionali. Allo stesso tempo non si è tenuto conto in modo adeguato delle differenze oggettive, basti pensare al costo della vita, che in certi settori motiverebbero una diversa articolazione su base territoriale. In terzo luogo, non si sono valutate le conseguenze di una distribuzione disinvolta di risorse ai livelli locali in un Paese che soffre di un gravissimo problema di corruzione. Per farvi fronte non bisogna togliere poteri alle Regioni ma è necessario porre in essere una forte azione moralizzatrice a livello generale. Impresa che non può essere delegata ai magistrati, ma richiede una mobilitazione chiara di tutte le forze politiche e sociali.
Secondo alcuni osservatori, i conflitti tra Stato e Regioni a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi dipendono anche da un problema istituzionale: l’elezione diretta dei “governatori” attribuisce loro una legittimazione più forte rispetto a quella di un governo centrale che non viene scelto direttamente dai cittadini. A fronte di questa diagnosi la terapia sarebbe quindi l’introduzione dell’elezione diretta dell’esecutivo…
La riforma costituzionale di cui ci sarebbe bisogno, a mio avviso, è il Senato delle Regioni, che pure era uno degli elementi contenuti nel progetto respinto nel 2016. L’esistenza di un Senato delle Regioni avrebbe evitato gli scontri tra poteri e costretto tutti a collaborare nell’interesse del Paese. E’ una questione di rappresentanza della nazione: personaggi come Zaia e Bonaccini, per fare degli esempi, dovrebbero essere in Parlamento. A ben vedere, la continua consultazione tra il governo e la conferenza delle Regioni che si è registrata nella gestione dell’emergenza è stato un modo di rispondere alla stessa esigenza. Un modo improvvisato e inevitabilmente confuso in mancanza di una sede istituzionalmente appropriata come il Senato delle Regioni. Che sarebbe anche il trait d’union tra l’elezione diretta a livello locale e il livello nazionale, per stare alla questione che lei segnalava.