“Questa pandemia sta mettendo a dura prova le nostre società. Il benessere di ciascuno Stato membro dell’Ue dipende dal benessere dell’Ue nel suo complesso”. Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, con queste parole tira le somme della riunione svoltasi ieri in videoconferenza tra i 27 capi di Stato e di governo Ue. Al centro dell’attenzione i mezzi e gli strumenti per rispondere all’emergenza Covid-19 soprattutto sul versante economico, posto che già si affaccia sul continente una spaventosa crisi economica e occupazionale, con profondi risvolti sociali.
“Abbiamo accolto con favore la tabella di marcia comune per la ripresa, in cui sono stabiliti – precisa Michel – alcuni principi importanti, quali i principi di solidarietà, coesione e convergenza. Nella tabella di marcia si definiscono inoltre quattro settori d’intervento chiave: un mercato unico pienamente funzionante, uno sforzo di investimento senza precedenti, un’azione a livello mondiale e un sistema di governance funzionante”.
Un vocabolario roboante, persino eccessivo, ma dove spicca un termine da tempo negletto: solidarietà.
Quella stessa solidarietà rimasta a dir poco nell’ombra durante la crisi del debito sovrano e in quella migratoria, riappare qui: forse i governi nazionali finalmente si rendono conto della posta in gioco e del fatto che l’Ue, se adeguatamente valorizzata nelle sue competenze (e nel pieno rispetto del principio di sussidiarietà), può costituire il giusto livello di governance per rispondere a problemi giganteschi che vanno ben oltre la capacità d’azione dei singoli Stati nazionali. E il coronavirus si ascrive a tale ordine di problemi.
I leader dei Ventisette hanno anzitutto accettato le tre “reti di sicurezza” per lavoratori, imprese e Stati comprese nel pacchetto dell’Eurogruppo, del valore di 540 miliardi di euro. Ovvero il Mes (240 miliardi) con condizionalità ridotte all’osso per le spese sanitarie dirette e indirette; i prestiti Bei a banche e imprese (200), il Sure per sostenere gli ammortizzatori sociali (100). Un pacchetto che dovrà essere operativo a partire dal 1° giugno 2020.
“Abbiamo inoltre convenuto – e qui Michel descrive il vero passaggio chiave del Consiglio europeo telematico – di lavorare per la creazione di un fondo per la ripresa, che è necessario e urgente. Il fondo dovrà essere di entità adeguata, mirato ai settori e alle aree geografiche dell’Europa maggiormente colpiti e destinato a far fronte a questa crisi senza precedenti”. È il Recovery Plan, sorta di Piano Marshall dei tempi moderni, fondato sui “recovery bond” cui tanto teneva il premier italiano Giuseppe Conte, con una potenza di fuoco da almeno 1.000 miliardi e garantito dal bilancio pluriennale Ue. Naturalmente si tratta di prestiti che, come ovvio, andranno prima o poi, e almeno in parte, rimborsati. Alla Commissione è stato indicato di concretizzare la proposta entro il 6 maggio per essere quindi valutata di nuovo dai leader nazionali, per poi passare alla fase attuativa: approvazione di Consiglio dei ministri Ue e Parlamento europeo, emissione dei bond sul mercato, eccetera.
Un eccetera quanto mai opportuno e prudente, perché dalle parole ai fatti la strada può essere irta di ostacoli, può allungarsi all’infinito, mancando l’obiettivo della tempestività. E, si sa, il diavolo si nasconde nei dettagli.
Restano sul tavolo alcune valutazioni politiche.
Anzitutto si può ritenere che la situazione si sia sbloccata perché i Paesi del Sud, con in testa Italia e Francia, hanno dimostrato che la situazione è tanto grave da poter travolgere chiunque: imprese, interi settori produttivi, milioni di lavoratori e famiglie, Stati nazionali con i rispettivi conti pubblici. La conversione al Recovery Plan da parte di Angela Merkel la dice lunga in questo senso e anche i Paesi più virtuosi (di questo si tratta) sul piano economico-finanziario, fra cui i Paesi Bassi e gli Scandinavi, hanno aperto gli occhi. Loro malgrado.
Non sono peraltro mancati nei giorni scorsi colpi di freno da parte dei leader nazionalisti, fra cui alcuni nomi noti dell’Europa centro-orientale: ma anch’essi si sono accorti che non si può scherzare col fuoco, e che gli stessi fondi comunitari che arrivano in abbondanza da Bruxelles potrebbero saltare se l’Unione europea dovesse ammainare la bandiera con le dodici stelle.
Un ulteriore punto aperto riguarda il futuro dell’integrazione europea. Il terribile e mortifero Covid-19 sta apparentemente suscitando un risveglio del processo di convergenza continentale. L’Ue ha già fatto molto, e in fretta, per rispondere alla pandemia: con il rafforzamento del mercato unico (circolazione personale e attrezzature sanitarie, circolazione alimenti, rientro dei cittadini Ue rimasti all’estero); mediante la riconversione di una parte dei fondi per acquistare materiali e medicine, migliorare le cure, implementare la ricerca sul vaccino; sospendendo le regole del Patto di stabilità e crescita così che gli Stati possano indebitarsi senza limiti per spese inerenti l’emergenza stessa; dando mano libera ai Paesi membri sugli aiuti di Stato in deroga a regole comunemente decise. Nel frattempo la Bce ha messo sul tavolo l’acquisto di titoli pubblici per 750 miliardi nel 2020 in aggiunta ai 240 già previsti in modo da garantire stabilità finanziaria agli stessi Paesi Ue. Ma se l’Ue riprende la marcia, avrà bisogno di ulteriori poteri, di nuove – pur parziali – cessione di sovranità, così da essere messa in grado di agire. Ieri Angela Merkel lo ha fatto intendere, riferendosi alla decisiva “coerenza” tra i sistemi fiscali europei: sarebbe un passo di assoluto rilievo verso la realizzazione dell’Unione economica e monetaria, anima e corpo di un sistema economico – e politico – integrato che vanta una moneta unica. Un elemento centrale e indilazionabile da chiarire su scala europea.