L’Oms lancia l’allarme per l’Africa. In una settimana +60% dei morti per la pandemia. A preoccupare, oltre i decessi che hanno raggiunto quota 1.119, la velocità con cui il virus si propaga. Nell’ultimo mese ogni giorno si registra un +15% di contagiati. Attualmente i Paesi più colpiti sono il Sud Africa e a nord, l’Egitto, l’Algeria e il Marocco. Ne parliamo con don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa Cuamm.
“I nostri medici e volontari – spiega – stanno lavorando in 8 Paesi: Etiopia, Sudan, Repubblica Centrafricana, Uganda, Tanzania, Mozambico, Angola, Sierra Leone. Nelle aree urbane dove le persone hanno la possibilità di accedere ad internet, alla tv, e di vedere quello che accade negli Stati Uniti, in Europa, ciò che prevale è il senso di paura. Si temono soprattutto i ‘bianchi’ visti come degli untori. La consapevolezza di proteggersi è invece quasi del tutto assente. Anche il distanziamento sociale nelle città è difficilissimo per le enormi periferie e zone povere. Così come l’igiene delle mani se a mancare è l’acqua corrente e se la gente mangia cibo delle discariche. Nelle aree rurali la situazione è più contenuta, grazie a una minore densità abitativa e mobilità, dovuta a strade spesso non asfaltate o allagate”.
Le persone stanno lasciando le città?
No. Nelle capitali c’è una fetta di popolazione ampia, circa il 30%, che vive di espedienti. Se questa società si blocca, anche ciò che è ai bordi, dai lustrascarpe fino a tutti quei lavoretti con cui la gente sopravvive, viene a sparire. Il lockdown serve a contenere l’epidemia, ma ha come effetto collaterale un aggravio sulle fasce deboli, pesantissimo. Quando si chiude un aeroporto, si bloccano tutti gli arrivi dall’estero che spesso generano un po’ di ricchezza. Dai tassisti ai tanti ragazzini che all’uscita portano le valige per una mancia, fonte di sopravvivenza.
Quali sono i provvedimenti presi dai governi africani?
A livello nazionale hanno chiuso le scuole, le università. I mezzi pubblici sono bloccati. Con tutto ciò che ne consegue: le donne ad esempio sono costrette a partorire nelle capanne con un rischio di mortalità molto superiore, perché non hanno i soldi per pagarsi un taxi e raggiungere l’ospedale, che magari si trova a centinaia di chilometri.
Come Organizzazione il nostro impegno più urgente è quello di mettere in sicurezza i 23 ospedali nei Paesi in cui operiamo assicurando dispositivi di protezione per il personale sanitario e gli addetti alle pulizie, oltre che il materiale necessario per la disinfezione degli ambienti; equipaggiamenti minimi per la diagnosi e gestione clinica; tende per il triage e unità di isolamento. La sfida è altissima e si aggiunge allo sforzo di assicurare le normali attività per garantire le cure essenziali. L’obiettivo è infatti far capire alle comunità che gli ospedali sono un ambiente sicuro dove mamme e bambini si possono recare senza rischi, così come chi soffre di malattie tradizionali, come la malaria o la gastroenterite. In modo da evitare le cosiddette morti indirette da virus.
Il sistema sanitario africano rappresenta un punto critico dell’emergenza sanitaria…
Ci sono gravissime carenze di personale. In Tanzania ad esempio, l’unico laboratorio per esaminare i tamponi per Covid19 si trova nella città di Dar es Salaam. In Sierra Leone vi è addirittura un solo anestesista per tutto il Paese. Mentre i posti letto di terapia intensiva, sempre nell’Africa subsahariana, sono in media 1 per 2 milioni di persone. Per non parlare dei farmaci: quelli sofisticati come gli anticoagulanti, fondamentali per la cura del Coronavirus che provoca embolia polmonare, non ci sono.
I medici del Cuamm, che hanno lavorato in Africa durante l’Ebola, cosa pensano di questa epidemia?
Rispetto al virus dell’Ebola, il nuovo coronavirus si presenta molto più invasivo se pur la letalità sia inferiore. Sulla relazione col caldo ci sono dati contrastanti. Per esempio nel Camerun, che è un Paese con alte temperature, i casi stanno crescendo a ritmi importanti.
Quello che possiamo affermare con certezza è che il fattore età è determinante.
Questo farebbe pensare che l’Africa che ha il 50% della popolazione al di sotto dei 18 anni, sia meno esposta rispetto ad altri Paesi. In realtà è molto frequente la malnutrizione, anche nei bambini, che ha un impatto sul sistema immunitario devastante. Poi ci sono i moltissimi pazienti Hiv, di cui circa la metà non è in trattamento. Infine, il tema dell’acqua e dell’acqua pulita.
In molte aree si combatte ancora nonostante la pandemia…
Questo è un altro grave problema. Perché quando ci sono guerre, situazioni drammatiche, le persone scappano portando con sé il virus, senza che sia possibile controllarle. Penso ad esempio a Rumbek, che si trova nella parte più a nord del Sud Sudan, dove all’ospedale abbiamo da una parte una sezione per le unità di isolamento pronte a ricevere casi Covid positivi e dall’altra la chirurgia con numerosi feriti da arma da fuoco.
Il volontariato può dare speranza all’Africa?
Abbiamo circa 3 mila volontari in Africa. Il 10% sono italiani ed europei, gli altri tutti locali. Di questi europei la maggioranza, almeno il 70%, è rimasta sul posto. Ci sono poi tanti over 65 che nonostante siano la fascia più a rischio, non sono andati via. Siamo preoccupati ma abbiamo la consapevolezza che, come tante volte l’Africa ci ha insegnato, mettendoci tutta la competenza che è nelle nostre mani e in quella dei Paesi africani, e lavorando insieme con la solidarietà internazionale, si possa uscire da questo brutto periodo.