“Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” (Gv 9, 2). Nel Vangelo di oggi è posta la domanda per eccellenza: di chi è la colpa? A causa di chi ci troviamo in questa situazione?
La domanda di sempre, ora attualizzata: di chi è la colpa di questa pandemia? Dei cinesi? Dei tedeschi? Degli italiani? Dei pipistrelli? Di chi ha mangiato i pipistrelli? Di chi è andato in Cina? Di chi è venuto in Italia? Di chi ha taciuto? Eccetera eccetera…
Cerchiamo sempre un colpevole, perché cerchiamo sempre un capro espiatorio, e cerchiamo un capro espiatorio perché questo ci permette di riprendere il controllo, di tornare ad avere stabilità: almeno sappiamo di chi è la colpa.
Una domanda folle, priva di senso: quanti di noi si macerano ponendosela per tutta la vita? Di chi è la colpa della mia attuale situazione? Perché sono così? A causa di che? Una domanda che può consumarci, perché induce a volgersi a guardare indietro, a scavare senza fine nel passato, e quindi a cercare le cause, di cui poi però si devono cercare le cause, in un inseguimento infinito che, alla fin fine, non serve semplicemente a niente.
Perché il passato è passato, e ora tu sei qui, e mentre cerchi le cause, non vivi il presente.
Con la sua risposta Gesù mostra che i primi ciechi sono proprio i suoi discepoli e, prima di curare il cieco nato, cura loro: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio.” (Gv 9, 3). Una frase lapidaria, che però compie una rivoluzione copernicana, inducendo i suoi a passare da una interpretazione causale a una finalistica: è il passaggio da “a causa di chi” a “in vista di che”.
Cercare la causa non coinvolge chi si pone la domanda, perché lo induce a cercare altrove: lo disimpegna e gli permette il vittimismo.
Cercare il fine di una situazione o di un accadimento, invece, ti compromette, perché ti devi necessariamente chiedere in che modo quanto succede serve a te, cosa ne puoi fare – e questa è tutta un’altra storia.
In vista di che mi trovo rinchiuso in quarantena? In vista di che sto sperimentando la povertà e l’esposizione? In vista di che la mia esistenza attuale è messa in crisi?
Per la gloria di Dio.
Questo è il fine, l’orizzonte aurorale simboleggiato in questa domenica dal rosaceo dei paramenti, che se anche può rendere un po’ ridicoli noi preti quando lo indossiamo, mantiene il suo significato evocativo di una speranza che sta sorgendo, della Pasqua che si avvicina.
Sant’Ignazio di Loyola descrive bene, al n. 23 degli Esercizi Spirituali, il perno fondamentale, il Principio e Fondamento, cioè il fine ultimo dell’autentico cammino dell’uomo: “L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e così raggiungere la salvezza; le altre realtà di questo mondo sono create per l’uomo e per aiutarlo a conseguire il fine per cui è creato. Da questo segue che l’uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano per il suo fine, e deve allontanarsene tanto quanto gli sono di ostacolo. Perciò è necessario renderci indifferenti verso tutte le realtà create (in tutto quello che è lasciato alla scelta del nostro libero arbitrio e non gli è proibito), in modo che non desideriamo da parte nostra la salute piuttosto che la malattia, la ricchezza piuttosto che la povertà, l’onore piuttosto che il disonore, una vita lunga piuttosto che una vita breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo soltanto quello che ci può condurre di più al fine per cui siamo creati.”
E allora a qualcuno serve la malattia per amare di più; a qualcun altro la salute. Qualcuno solo toccando il fondo scopre la forza di rialzarsi e il desiderio di vivere; qualcun altro richiede maggiore stabilità… e così via.
Tutto, secondo il Principio e Fondamento, può essere preso e metabolizzato per essere trasformato in occasione di amare, di essere segno della presenza di Dio nel mondo – per la gloria di Dio, appunto.
Chiediti allora non di chi è la colpa, ma cosa puoi fare di tutto quello che stai vivendo, e come puoi usarlo per raggiungere al meglio la tua vera fisionomia di figlio di Dio.