Scoppiata il 15 marzo del 2011, la guerra in Siria entra nel suo decimo anno di vita, lasciandosi dietro più di mezzo milione di morti, circa 7 milioni di sfollati interni e quasi altrettanti nei Paesi limitrofi, soprattutto in Turchia, Libano, Giordania, Egitto e Iraq. E i movimenti di ritorno degli sfollati interni e esterni sono minimi, circa 100mila. I due terzi della popolazione vive in povertà, anche a causa delle sanzioni internazionali. Sul piano sanitario (stime Onu), oltre 11 milioni di siriani, 40% sono bambini, non hanno accesso a cure mediche ed ospedali. La Siria oggi è un Paese distrutto nelle sue infrastrutture (strade, scuole, ospedali, fabbriche…) – la disoccupazione ha superato il 50% – e devastato nel suo tessuto sociale, spaccato in mille pezzi. Segnato nel profondo anche dalla feroce violenza dello Stato Islamico.
“Il Paese non è più quel mosaico di fedi e di etnie che era prima della guerra”.
Alla ricostruzione materiale del Paese, che pure vede qualche luce, dovrà necessariamente corrispondere quella sociale e spirituale della popolazione. Ma, come detto più volte al Sir, dal nunzio apostolico in Siria, card. Mario Zenari “le distruzioni che non si vedono sono più gravi di quelle che si hanno davanti agli occhi. La guerra ha intaccato e distrutto il tessuto sociale. Ricostruirlo non è la stessa cosa che riedificare un ponte o un palazzo. Ci vorranno anni e forse generazioni per guarire ciò che l’occhio umano ora non vede. Il mosaico siriano ha subito gravissimi danni. Ora bisogna ripararlo”. I continui appelli per “l’amata e martoriata Siria” di Papa Francesco sono un collante prezioso per tutti i siriani.
La guerra non è finita. “Purtroppo si combatte ancora” rimarca Edoardo Tagliani, direttore dei programmi in Medio Oriente della Fondazione Avsi, che invita a guardare a quanto sta avvenendo a Idlib, nel nord ovest della Siria, ultimo bastione in mano all’opposizione armata. Qui, infatti, si stanno fronteggiando l’esercito siriano e le milizie alleate paramilitari, supportate dall’aviazione russa, e le forze ribelli che fanno capo in particolare ai jihadisti di Tahrir al-Sham (ex Al Nusra) e all’Esercito Nazionale Siriano, sostenuto dalla Turchia e di orientamento islamista. Con quali conseguenze? “I combattimenti hanno provocato circa un milione di nuovi sfollati nella zona di Idlib che ora cercano di entrare in Turchia. Ma Erdogan ha chiuso le frontiere”. Avverte Tagliani: “c’è un equivoco di fondo: i siriani che in questi giorni stanno premendo ai confini greci non sono i nuovi sfollati di Idlib, ma è gente arrivata in Turchia da due o tre anni”.
“La presenza sul terreno di tante forze straniere (Russia, Turchia, Iran, su tutte, ndr.) – dice l’operatore di Avsi – ha trasformato questo conflitto, iniziato con proteste anti regime, in una vera e propria guerra per procura. Non è una guerra civile tra siriani. Si combatte e a pagare il tributo maggiore è la popolazione civile le cui condizioni peggiorano sempre di più anche per le sanzioni internazionali che impediscono di fatto l’ingresso e l’uscita di diversi beni, anche alcune medicine. Ci sono notevoli difficoltà di approvvigionamento e di strumentazioni per le cure mediche”.
Una ricostruzione da 600 miliardi di dollari. Davanti a un quadro simile si può parlare di ricostruzione? In ballo, secondo stime, almeno 600 miliardi di dollari. “Per farlo – spiega Tagliani – è necessario tenere in considerazione diversi ‘nodi politici’”. L’avvio di un processo democratico è uno di questi. “Ci sono nazioni – conferma l’operatore Avsi -poco propense a finanziarla finché Assad resta al potere”. Al di là delle mire dei Paesi coinvolti resta una priorità ricostruire scuole e ospedali, oltre il 50% di questi ultimi andati distrutti.
“Gli alleati di Damasco possono appoggiare il Governo in tanti modi ma non certo finanziando la ricostruzione poiché non hanno i fondi. Chi paga la guerra e i nodi politici che stritolano la possibile ricostruzione è, ancora una volta, la popolazione civile”..
All’alba del decimo anno di guerra è lecito chiedersi se la Siria abbia ancora delle prospettive di stabilizzazione e di pace davanti. Per Tagliani “rispondere a questa domanda non è possibile senza avere una visione ampia della situazione. Da Idlib il conflitto siriano è arrivato fino in Libia – spiega – il quadro si è allargato a tutto il Medio Oriente e non solo. La Siria, prima della guerra, pur con tutte le sue problematiche, era un mosaico bellissimo che adesso bisogna ricostruire. Il rischio, altrimenti, è di vedere il Paese diviso su basi etnico-religiose. La convivenza e la pace sociale della Siria, che prima della guerra tenevano insieme almeno dieci etnie differenti, maggioritarie e minoritarie, oggi sono state seriamente compromesse e vanno recuperate. Erano un ottimo esempio per tutto il Medio Oriente”.
Dare speranza. L’impegno di Avsi in Siria va in questa direzione. “Noi – afferma Tagliani – cerchiamo di fare la nostra parte lavorando su più fronti. Nel Ghouta, area rurale di Damasco, stiamo cercando di rivitalizzare l’economia di base, con progetti legati all’agricoltura e al piccolo allevamento”. Sono 600 le famiglie che vivono grazie a questi progetti. Abbiamo anche progetti per le vedove di guerra finanziato dall’Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. “Sempre a Ghouta stiamo cercando di intervenire sul piano dell’educazione, per noi settore fondamentale, con un progetto di riabilitazione leggera per le scuole e un piano di sostegno per i bambini traumatizzati dal conflitto.
Progetti che si affiancano a quello più ampio degli “Ospedali Aperti” voluto dal card. Mario Zenari, avviato nel luglio 2017 con la gestione di Avsi, e sostenuto da una rete di donatori internazionali. “Ospedali aperti” intende assicurare l’accesso gratuito alle cure mediche ai siriani poveri, attraverso il potenziamento di 3 ospedali non profit: l’Ospedale Italiano e l’Ospedale Francese a Damasco, e l’Ospedale St. Louis ad Aleppo.
“I siriani oggi hanno bisogno di pace, ma soprattutto di speranza”
ribadisce Tagliani. Questa si concretizza in tanti modi. “Può essere una finestra riparata in una scuola, cento polli dati ad una famiglia per avviare un allevamento, speranza è in ogni gesto che dica ai siriani ‘non siete soli’. Per uscire dalla guerra bisogna restare uniti. In questo senso ‘Ospedali Aperti’ è un esempio: il 90% delle 33 mila persone curate sino ad oggi, nei tre nosocomi cattolici, sono musulmani. Stiamo ampliando il progetto finalizzando un accordo con due dispensari che erogano sanità di base. Il messaggio è: curare i malati non solo nel corpo ma anche nelle ferite sociali. Ci sono stuoli di sciiti e sunniti che ringraziano le strutture cristiane e la nunziatura per le cure ricevute gratuitamente. Questo è un modo di infondere speranza e ricostruire il mosaico siriano”.