Ez 34,11-12.15-17; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46
Questa non è una parabola, ma una descrizione profetica dell’ultimo giudizio: intorno al Figlio dell’uomo, nella gloria, un’assemblea universale che raccoglie insieme il cielo e la terra, gli angeli e le genti. È Gesù a separare.
Michelangelo nella Cappella Sistina ci fa contemplare il giudizio finale come attraverso una parete aperta su un lembo di terra e di acqua e su un immenso cielo sereno di azzurro lapislazzuli. Entro questo scenario un grandioso vortice di figure, riunite in gruppi e sottogruppi, con innumerevoli espressioni, pose, gesti, movimenti, sembra ruotare intorno al Cristo Giudice, perno di tutta la composizione.
Cristo, affiancato soltanto da Maria e ben staccato rispetto alla corona di santi che lo circonda, è la figura più visibile, imponente e maestosa. Si sta alzando dal suo trono di nubi, viene avanti, compiendo con le braccia un gesto imperioso e pacato nello stesso tempo. Sembra chiamare a sé gli eletti e allontanare i dannati, quasi innescando un lento moto rotatorio con figure che salgono e scendono. Il Cristo giudice attrae e atterrisce. Impersona il Mistero divino, tremendo e fascinoso.
Accanto a lui Maria, raccolta in se stessa, si aggiusta con le mani incrociate il velo simbolo della sua verginità e guarda con benevolenza gli eletti. Nugoli di angeli scendono dall’azzurro profondo e mostrano gli strumenti della sua passione: la croce, la corona di spine, la colonna e la canna con la spugna. Gli strumenti della sua umiliazione e del suo tormento diventano i motivi e le insegne della sua gloria. Ed è con la sua passione e con il suo amore che ogni uomo deve confrontarsi: accogliere è salvezza; rifiutare è perdizione. “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30): il giudizio è questo.
Il Giudizio Universale coincide con quella che il Vangelo chiama “risurrezione di vita” e “risurrezione di condanna” (Gv 5,29) e indica l’estendersi alla totalità dell’uomo della salvezza o della perdizione definitiva. Michelangelo ha fissato il momento di inaudita tensione che precede la sentenza definitiva; momento sospeso tra giustizia e misericordia. L’immagine del giudice divino è un appello estremamente serio alla conversione. Lo era innanzitutto per l’artista stesso: “Gli infiniti pensier mie’, d’error pieni, ne gli ultimi anni della vita mia / restringer si dovrien ’n un sol, che sia / guida agli eterni suo’ giorni sereni”.
Dio è giudice in quanto è la nostra stessa vita, il nostro vero bene. Egli si dona a noi in Cristo e ci costringe a scegliere. Trovare Cristo è trovare se stessi; perdere Cristo è perdere se stessi. Questa scelta fondamentale si costruisce attraverso le scelte concrete di ogni giorno; diventa definitiva e pienamente manifesta nella morte; diventa totale ed estesa a tutte le dimensioni della persona al termine della storia comune dell’umanità. Tutti siamo creati in Cristo e tutti stiamo andando verso di lui: sta a noi scegliere se andare a lui nell’amore o nel terrore.
Dov’è Dio? Chi l’ha mai visto? Domande terribili che percorrono la storia dei singoli e dell’umanità, soprattutto quando gli eventi ci superano e sembra venir meno ogni fondamento; quando a crollare sono i muri di sotto. Un giorno queste domande avranno una risposta, ma sarà “alla fine”. E il segno della presenza di Dio, della sua visibilità, ci sarà mostrato “nei più piccoli”.
La salvezza e la perdizione sono definite con due verbi di movimento: la salvezza è “venire” verso Gesù, la perdizione è allontanarsi da Lui. Ma di salvezza e perdizione parlavano anche le parabole che precedono questa pagina: l’olio delle vergini sapienti è la carità che anima la vita e che, sola, riesce a moltiplicare i doni di Dio (i talenti).
Se un anno liturgico si chiude, uno nuovo si apre. Per grazia ci è dato ancora del tempo. L’oggi preme alla nostra porta. A noi scegliere la direzione dell’avvicinarci o dell’allontanarci dal Signore Gesù che è la stessa del farci prossimi o estranei agli altri.