Is 55,6-9; Fil 1,20-24.27; Mt 20,1-16
Gesù racconta una splendida parabola ai discepoli, mentre sale a Gerusalemme, annunciando che lì “il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà”. E i discepoli, in risposta, litigano sui primi posti.
C’è legame tra la vigna della parabola e la città di Gerusalemme; l’una è immagine dell’altra. Se Gerusalemme è la sposa amata, la vigna è il “talamo” dove si consumano le nozze dell’amore di Dio per l’umanità.
Gesù esce – dal Padre – a chiamarci. Stabilisce un compenso preciso per l’opera dei lavoratori chiamati da subito; per gli altri ne promette uno “giusto”. L’attenzione non è sul guadagno, ma su quel tornare a chiamare e a mandare, per non lasciare disoccupati e in ozio; come dire in una esistenza senza fatti, senza una direzione, senza uno scopo.
Il mugugno degli operai della prima ora vorrebbe giustificarsi in rapporto al compenso finale, ma non trova scusante se l’ottica è quella dell’immenso valore di essere chiamati e mandati nella vigna. Non se ne esce: di fronte alla bontà del Signore si oppone l’occhio cattivo: “Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. È la mormorazione dei primi la ragione che li fa ultimi; la loro invidia è nel non accettare che gli altri ricevano del bene, quasi a dire che la bontà di Dio è per loro insopportabile. È la stessa mormorazione del popolo nell’Esodo.
Gesù non aspetta che ci presentiamo a chiedere lavoro; è lui che viene a cercarci: è una economia nuova. Non è la vigna ad aver bisogno degli uomini, ma noi di essa. Mistero della fede; mistero dell’amore. Noi aspiriamo al centuplo, fin da adesso; per questo è fatto il nostro cuore.