Non miete vittime nello star system e non è più considerata una piaga sanitaria come nei decenni passati, grazie alle terapie che hanno allungato le prospettive di vita e ai farmaci per la prevenzione, e così del virus dell’Hiv e della malattia Aids si parla solo sporadicamente o in occasione della Giornata mondiale che si celebra il 1° dicembre. Eppure, in Africa l’infezione è ancora diffusa, tanto da colpire 25,6 milioni di persone e farne morire, a causa della malattia, 380mila solo nel 2022. In Europa, i dati appena pubblicati dall’ultimo rapporto del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) e dall’Ufficio regionale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) mostrano una situazione ben diversa ma non meno trascurabile: con l’infezione da Hiv convivono quasi 2,6 milioni di persone, in particolare nella parte orientale dell’Europa. Insomma una situazione ancora lontana dall’obiettivo lanciato nel 2012 dall’Oms di azzerare i nuovi contagi entro il 2030. Gli strumenti per migliorare la qualità della vita di chi è già stato colpito dall’infezione e quelli per prevenirla, a cominciare dalla profilassi pre-esposizione (Prep), mostrano tutta la loro efficacia nell’Occidente ma sono ancora scarsamente accessibili nelle parti più svantaggiate del Pianeta. “Ogni anno in Africa abbiamo un milione e mezzo di persone che si infetta”, rammenta Stefano Vella, infettivologo e docente di Salute globale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. “L’Oms preme per diffondere la Prep nel Continente africano, dove solo il 70% è raggiunto dalle terapie”.
Professore, l’obiettivo di abbattere il peso nel mondo di Hiv e Aids, perseguito dall’Oms, è raggiungibile?
All’inizio, quando l’Oms ha lanciato l’obiettivo ero molto scettico ma credo che con le terapie sia effettivamente possibile almeno in Occidente, mentre in Africa, dove ogni anno un milione e mezzo di persone si infetta, temo sarà più difficile. In Italia le nuove diagnosi riguardano le persone più adulte, fra i 40 e i 50 anni. Di Aids non si muore quasi più grazie alle cure e anche la trasmissione è meno diffusa grazie alle terapie, che sono capaci di ridurre la carica virale in coloro che sono sieropositivi.
Nonostante le strategie di prevenzione, nel nostro Paese, secondo l’Istituto superiore di sanità, i contagi sono tornati ai livelli pre-pandemici. Cosa occorre ancora fare per aumentare la sensibilità al tema?
Serve più informazione, capire qual è il target perché occorre andare mirati alle persone più a rischio. Occorre informare sulla Prep che è una profilassi efficace per coloro che hanno comportamenti a rischio e che generalmente non si proteggono. La Prep costa poco e inoltre consente di entrare in percorsi diagnostici precoci estesi alle altre infezioni sessualmente trasmissibili. È per questo che l’Oms preme per diffondere la Prep in Africa, visti i numeri nel Continente, dove solo il 70% è raggiunto dalle terapie. Se dessimo i farmaci della profilassi che coprono ancora più a lungo avremmo altri numeri di diffusione. Non ho mai visto nella storia della medicina altri medicinali che proteggono in questo modo. Ci sono delle prospettive che mi fanno pensare che l’obiettivo sarà molto vicino. Certamente, lo sarà meno nel Global South.
I test sono sempre più accessibili in Italia?
Sì, ormai il test è eseguibile non solo in ospedale ma anche in farmacia con una puntura sul dito.
Esiste uno stigma verso la malattia?
Sì, sebbene sia incomprensibile perché esistono le terapie. Sappiamo che l’Hiv si trasmette solo per via sessuale, ma che l’aspettativa di vita è molto simile a chi non è infetto. Anche la qualità della vita è migliorata, sebbene la cura sia per sempre. Le diagnosi tardive inoltre significano che il virus è rimasto nell’organismo a lungo provocando infiammazioni. Proprio per questo si spinge affinché la persona che sa di essere a rischio faccia i test: sia per evitare ulteriori contagi sia per iniziare subito la terapia ed evitare effetti ulteriori. Nel mondo ci sono poi le discriminazioni o addirittura le pene detentive nei confronti dei tossicodipendenti, come ad esempio nei Paesi dell’Europa dell’Est, o degli omosessuali in Africa che si nascondono, hanno paura di essere malati e per questo non si curano.