Uniti nella diversità e diversi nella unità. Forse è questa la grande sfida, ma sarebbe meglio dire opportunità o via che si apre dinanzi a noi. Se è vero che tutto spinge a riconoscerci partecipi di una comunità di destino come umanità, è quanto mai importante avvertire i legami che ci uniscono in maniera imprescindibile quali principio del nostro stesso essere nella infinita diversità dell’umano e come inesauribile risorsa. L’umanesimo planetario è un umanesimo relazionale che ha nel dialogo la sua cifra più propria e che solo nel dialogo può far emergere tutta la sua ricchezza. Un umanesimo dialogico e intimamente relazionale. Le identità individuali, comunitarie, culturali religiose devono potersi comprendere e costruire in relazione non solo perché questa relazione si impone come inaggirabile interdipendenza ma perché essa è il grembo in cui si delineano i tratti che definiscono le identità a tutti i livelli. Perché si dia la relazione autenticamente, perché il dialogo fiorisca occorre che ciascuno sia riconosciuto e accolto nella sua unicità. Non si dà relazione e neppure dialogo quando nel rapporto con l’altro si ricerca ciò che è comune a partire da sé, quando lo sguardo tende ad inglobare. Tessere l’unità non è ricercare e meno che mai imporre l’uniformità. C’è un universalismo fatto di modelli economici e culturali, ma anche di sistemi politici o di valori astrattamente intesi che nega e distrugge tutto ciò che è particolare: il senso delle storie e delle tradizioni il significato e la forza dei luoghi. È un universalismo che azzera l’umano, che genera umiliazione e risentimento, contrapposizione e violenza. Questo modo di far valere l’universale è sicuramente funzionale alla globalizzazione tecnocratica, ma si insinua anche nel rapporto tra le culture e tra le religioni, divenendo principio di ostilità e di conflitto. D’altra parte però la rivendicazione di ciò che è particolare e unico, delle specifiche identità, non basta da sola a salvaguardare il senso dell’umano dal momento che essa può scivolare nella rivendicazione identitaria o nelle tante forme di corporativismo o di nazionalismo che il nostro tempo registra. Se il particolare è sottratto alla relazione e pensato fuori di essa, si deforma fino a perdere ciò che ha di più proprio e condannarsi all’autodistruzione.
La questione è allora come tenere insieme singolarità e relazione, unicità e universalità? Ci è chiesto di superare lo schema che vede il singolare quale declinazione dell’universale, da esso deducibile. Il rischio è infatti quello di far coincidere l’universale, o la verità, con il proprio punto di vista e di determinare livelli di perfezione anch’essi riconducibili a sé. L’universale si comprende nel particolare, da esso affiora nella inesauribilità dei suoi tratti, mai definibili una volta per tutte e soprattutto mai circoscrivibili, recintabili. Si dice in molti modi. Non c’è un’unica lingua ma la fatica della traduzione che richiede l’immergersi nell’universo linguistico e culturale dell’altro imparando a coglierne le sfumature e accettando lo scarto, l’irriducibilità che porta con sé. Ed è in tal senso che le identità possono comprendersi come risorse (François Jullien).
Forse le religioni possono aiutare a scoprire quanto tutto questo sia necessario ed essenziale per una comprensione dell’umano.
Se si muove dall’esperienza che è al cuore delle religioni: l’esperienza religiosa come esperienza di Dio, la relazione tra l’universale e il singolare si lascia cogliere come ciò che abita intimamente l’umano a tutti i livelli e in tutte le sue relazioni, come ciò che agisce al cuore del reale. Non una relazione di tipo logico, ma viva e vitale.
È in particolare la fede cristiana ad attestare tale relazione. Nell’unicità di Gesù Cristo si rivela l’assoluto di Dio non quale sua particolare declinazione ma quale “luogo” del suo dirsi. Tutto nella persona del Cristo viene da questa relazione e in essa vive. Che cosa sia l’esperienza di Dio e che cosa in essa accada risplende pienamente in Cristo Gesù. Non semplicemente il tendere dell’uomo verso Dio, ma il donarsi infinito di Dio che fa vivere ed essere ogni creatura. Un donarsi che è unico per ciascuno, in cui respiriamo, ci muoviamo, agiamo, divenendo ciò che siamo (cf At 17, 28 ma anche Schleiermacher o Zubiri).
Comprendersi in questo amore che è fonte inesauribile del nostro essere ci unisce in radice nella irriducibile diversità dei percorsi e delle storie. La diversità non è da temere o da guardare con sospetto ma da riconoscere e accogliere, lasciando che nella relazione emerga ciò che è comune, che è al fondo e che infinitamente ci supera perché sorgente del nostro essere e termine ultimo del nostro tendere.
Il dialogo se vissuto in autenticità spiazza spezza i nostri recinti la rigidità delle nostre certezze per lasciare spazio all’inedito aprendo ad una relazione che ci riporta al fondo di noi stessi e ci spinge oltre verso ciò che non possiamo ridurre a noi e neppure all’altro ma che entrambi ci supera pur essendo più intimo a noi di noi stessi.