Vestito blu, camicia bianca, cravatta rossa: ci ha fatto sorridere Matteo Salvini che lo scorso 6 novembre si è presentato in Parlamento, e naturalmente a favore di telecamere, vestito da Donald Trump. Arlecchino servo di due padroni. Ma di trumpiani, nei giorni successivi all’elezione del 47° presidente degli Stati Uniti d’America, ne abbiamo scoperti, anche da noi, molti più di quanti ce ne saremmo aspettati. Negli Stati Uniti pare che Trump abbia vinto facendo leva soprattutto sulla pancia di un elettorato malcontento e insicuro, stanco di veder scendere il proprio potere d’acquisto e di sentir minacciato il proprio già modesto tenore di vita da inflazione, arrivo di nuovi migranti, crescente inacessibilità delle cure mediche. Insomma anche oltreoceano la working class, quella cioè che vive solo del proprio lavoro (operai, agricoltori, impiegati, commercianti, artigiani, piccoli imprenditori…molti dei quali anche ispanici) si è rimessa paradossalmente, potremmo dire, sotto l’ala dei padroni, della frangia liberale e conservatrice, sentendosi evidentemente poco rappresentata se non del tutto tradita dal quel partito che nel passato ne aveva difeso le istanze e gli ideali, ma che ora di democratico sembra aver mantenuto appena il nome.
Del resto sono parsi emblematici i luoghi da cui i due sfidanti alla Casa Bianca hanno seguito l’andamento delle elezioni: Kamala Harris dalla Howard University di Washington, Donald Trump dal suo resort in Florida con a fianco Elon Musk, secondo Oxfam e Forbes l’uomo più ricco (250 miliardi di dollari) e influente del mondo, con interessi enormi nel mercato delle auto elettriche, dell’ingegneria aerospaziale, ma anche dei social e della oggi tanto seducente quanto temuta intelligenza artificiale. Che la working class statunitense e una buona parte dei migranti ispanici residenti negli Stati Uniti si siano messi nelle mani di questi ultimi personaggi suona quantomeno bizzarro e imbarazzate. Ma d’altro canto nemmeno un’università privata della capitale, per quanto in prima linea per la promozione e la difesa dei diritti civili, pare il luogo migliore per “ascoltare il grido dei poveri” che di certo avranno avuto la sensazione (se fondata, saranno i prossimi mesi a dirlo) di essere più considerati sui social di Musk che in molte, troppe, assise e dibattiti radical chic dei dem statunitensi.
Tuttavia le ragioni del successo di Trump negli Stati Uniti, come più in generale dei populismi di destra in tutto l’Occidente, non sono imputabili solo al distacco della dirigenza democratica dal vissuto del popolo, ma vanno indubbiamente ricercate anche in quella profonda e preoccupate crisi culturale (e vorremmo dire spirituale) che riguarda quello stesso popolo.
Se per difendere il proprio piccolo interesse personale si è pronti a mettere se stessi e il proprio Paese nelle mani di un uomo d’affari spregiudicato, coinvolto in centinaia di cause legali, che considera i mezzi di informazione e i giudici il suo peggior nemico; incriminato per aver sottratto documenti riservati, sobillato un assalto al Congresso, falsificato bilanci per pagare il silenzio di una pornostar con cui intratteneva regolari rapporti (i collegamenti con qualche politico italiano vengono da soli…) appare allora evidente che c’è un problema di valori, ideali e modelli culturali. Se vogliamo evitare che a prevalere siano pericolosi populismi, abbiamo bisogno di politici più coerenti e popolari (nel senso di più vicini alla quotidianità della gente) e di una cultura popolare che si risollevi dal becero materialismo, consumistico e spesso ancora machista, in cui è, ahimè, precipitata.