A confronto con i coetanei degli altri Paesi troviamo i giovani italiani più nella casa dei genitori, meno nei percorsi di formazione più avanzata, meno nei luoghi di lavoro e all’interno dei processi di sviluppo, meno nel ruolo di genitori, di conseguenza fisicamente anche sempre meno in Italia (per la natalità che rimane bassa e per i flussi di uscita). Il 17 novembre ricorre l’VIII Giornata mondiale dei poveri. I dati Istat e il rapporto Caritas parlano di un aumento di povertà tra minori e giovani. Ne parliamo con Rita Bichi, docente di Sociologia all’Università cattolica e membro del Comitato scientifico dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo.
Professoressa, tra i “nuovi poveri” possiamo inserire minori e giovani? Per quale motivo cresce la povertà in questa fascia d’età?
La povertà tra minori e giovani è un argomento molto attuale, concreto, ma del quale si parla poco e ancor meno si interviene. La povertà dei giovani è multidimensionale, non c’è solo una povertà economica, che pure è molto importante. I dati dell’Istat mettono in evidenza chiaramente come la fascia della popolazione maggiormente povera dal punto di vista economico sia proprio quella dei giovani e, in particolar modo, dei minori. La situazione è così da molti anni. Il nostro Osservatorio sulla condizione giovanile dell’Istituto Giuseppe Toniolo si occupa anche di ascoltare i giovani, come ci dice anche Papa Francesco, per capire la loro condizione. Questa povertà, che è un dato certamente quantitativo, è anche percepita dai giovani come marginalità.
I giovani, insieme alle donne, alle famiglie numerose, agli stranieri, sono tra le fasce della popolazione italiana più povere dal punto di vista economico.
Questo accade per una serie molteplice di ragioni e di processi che sono in atto. C’è un generale impoverimento di fasce di popolazione sempre più larghe, quindi la forbice tra quelli che sono ricchi e quelli che sono poveri si allarga sempre di più, ci sono sempre meno ricchi molto ricchi e sempre più poveri che vanno impoverendosi. Si parla anche di lavoro povero, cioè di persone che pur lavorando rischiano di scendere sotto il livello che consente a una persona di vivere in maniera dignitosa. Questa è una tendenza generale della nostra società. In particolare, i più giovani sono tra i meno protetti. Questo è un altro dei grandi fattori in gioco. Se si guardano le curve della povertà economica suddivise per le varie fasce di età, i giovani sono molto più sopra come numero di poveri rispetto ai più anziani. Ciò accade perché i più anziani ancora oggi sono maggiormente protetti da un welfare che li ha sostenuti, fino ad alcuni anni fa c’era una sanità che funzionava meglio di quanto funzioni oggi, un sistema pensionistico che proteggeva maggiormente i lavoratori. Le generazioni che hanno preceduto gli attuali giovani hanno potuto usufruire di questa protezione che i giovani non hanno più oggi.
Quali sono le conseguenze, anche sociali, di questa povertà materiale?
Una delle conseguenze è che i giovani non riescono a intraprendere una vita autonoma, indipendente dalla propria famiglia, per cui in Italia i venticinquenni/trentenni rimangono o ritornano a casa dei propri genitori in una percentuale molto elevata, infatti un altro aspetto che i giovani di oggi vivono è la precarietà lavorativa. Ciò comporta che i giovani non possano avere in maniera stabile una vita autonoma e a dover tornare a casa dai genitori che ancora riescono a sostenerli. Questa “povertà” è uno dei fattori che fa sì che i giovani italiani facciano meno figli, che non riescano a mettere in piedi una propria famiglia. Per il Rapporto dell’Osservatorio abbiamo chiesto ai giovani se desiderano avere figli e ci hanno risposto di sì. Nel progetto di vita dei giovani c’è questo desiderio di fare figli ma poi in Italia registriamo un indice di natalità tra i più bassi in Europa. Questo vuol dire che il desiderio non trova attuazione e viviamo una crisi demografica molto forte che è un altro dei grossi problemi che abbiamo in Italia. La povertà economica comporta molti problemi. Tra le conseguenze, c’è anche il fatto che molti giovani vanno a cercare lavoro altrove, quindi l’Italia perde risorse, capitale umano.
La povertà materiale per minori e giovani si traduce anche in meno possibilità di formazione e in povertà educativa?
Certamente sì, è più facile che, quando c’è la povertà familiare, i giovani lascino la scuola prematuramente. Per povertà educativa non si intende solo la scolastica, ma è una delle parti del problema. In Europa noi abbiamo un tasso di abbandono scolastico molto elevato, rispetto agli altri Paesi, anche se abbiamo fatto dei progressi negli ultimi anni. Più si è poveri, più forte è il rischio di esclusione educativa, come è più forte il rischio di arrivare a una condizione che noi chiamiamo normalmente Neet, una sigla che sta a indicare i giovani che non lavorano, non sono in un percorso formativo, non studiano, sono in una condizione di apatia, di esclusione totale dalla vita associata. La povertà educativa si riflette anche in una povertà culturale, per cui non si va a cinema, a teatro. Ma a ciò si aggiunge ulteriormente la difficoltà a trovare adulti, capaci di stare accanto a questi giovani e di diventare punti di riferimento per loro. È un fatto che riscontriamo molto bene quando andiamo a indagare alcuni aspetti della vita dei giovani, come quelli legati alla religiosità e alla spiritualità: i ragazzi raccontano la loro difficoltà, il loro bisogno che non trova risposta. La difficoltà di trovare adulti che accompagnano è un altro aspetto della povertà educativa.
Assistiamo a una crescente violenza da parte dei giovani: anche per futili motivi si rendono protagonisti di violenze gratuite e terribili. Potremmo definirla una “povertà morale”?
In qualche modo sì, questo rientra in un discorso molto più generale. I giovani, che sono la parte più fragile della società, risentono maggiormente del clima culturale, etico che li circonda e dentro il quale crescono. Nella nostra società vediamo come sia facile superare dei limiti che una volta erano considerati invalicabili. Oggi avvengono fatti che un tempo erano impensabili, per tante ragioni complesse. È in questo contesto largo che i giovani raccolgono il loro modo di pensare, di essere, di agire, sono figli di questa società.
I giovani come vivono la loro povertà?
Non la vivono bene, la vivono come un ostacolo, un limite, come qualcosa che vorrebbero modificare, hanno delle aspirazioni, dei desideri, dei bisogni. Al contrario dei millennial tacciati di essere buoni a nulla, bamboccioni, le attuali generazioni esprimono volontà di agire, di essere autonome, indipendenti, attive nella società, quindi vivono la condizione di marginalità cercando di contrastarla, ma non hanno intorno un ambiente che le aiuta. Le politiche giovanili non riescono a sostenerle, anche perché le risorse sono assai poche e più spesso non vanno a sostegno dei giovani.
Si parla tanto di intelligenza artificiale: potrà incidere sulla povertà giovanile e in che modo?
Quello che maggiormente ci fa pensare è i giovani vivono in un mondo multi-critico, in un contesto così difficile, ma anche un cambiamento enorme da tutti i punti di vista – politico, sociale, economico – e tanto più lo vivranno negli anni futuri in relazione al cambiamento tecnologico. C’è l’intelligenza artificiale dentro le vite di tutti noi, ma soprattutto dei giovani, che modificherà le loro possibilità, non si sa con quali risultati sulla povertà. È un grande punto interrogativo, non si sa ad esempio quanto inciderà l’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro, come lo cambierà, sono tutte domande molto aperte.
È un mondo in rapidissimo mutamento dentro il quale i giovani stentano a diventare protagonisti e questo è un altro limite.
I giovani sono pochi e non hanno particolare protagonismo e loro lo sentono questo limite: è un’altra povertà il non poter accedere a posizioni nelle quali decidere per il proprio futuro. Molto spesso le decisioni per il futuro vengono prese da generazioni che sono avanti negli anni e forse non vedranno neanche i risultati delle loro scelte.