Nella diocesi di Malakal, in Sud Sudan, sono ancora visibili i segni della guerra civile finita cinque anni fa. Nell’aeroporto ci sono ancora macerie e oltre 50.000 sfollati vivono da dieci anni in uno slum alla periferia della città, in condizioni di povertà estrema. Come se non bastasse, da quando un anno e mezzo fa è iniziato il conflitto nel vicino Sudan – Malakal è zona di frontiera – sono arrivati con imbarcazioni di fortuna dal Nilo già 500.000 profughi, in maggioranza sudsudanesi che si erano rifugiati anni fa in Sudan facendo il percorso inverso. Oltretutto è un territorio colpito di frequente da pesanti alluvioni che causano altri sfollati climatici. E’ una popolazione purtroppo abituata agli sfollamenti, ai disagi, a stare continuamente in situazione di emergenza, a ricevere aiuti umanitari. Questa è la situazione che sta osservando con i propri occhi la delegazione di Caritas italiana, guidata dal direttore don Marco Pagniello, in questi giorni in viaggio in Sud Sudan e Kenya. Caritas italiana sta supportando la Chiesa locale con l’8 per mille e con le donazioni per l’emergenza in Sudan. Finora ha già impegnato mezzo milione di euro. Caritas Malakal distribuisce quotidianamente cibo (farina, olio, sale e legumi) nel campo profughi temporaneo di Malakak, dove arrivano ogni settimana mille profughi sudanesi, in attesa di essere trasferiti in altre località. Il Sud Sudan è, con la Somalia, il Paese più impoverito del mondo. Insieme al Ciad e all’Egitto ospita il maggior numero di persone in fuga dal Sudan, oltre 11 milioni tra sfollati interni e nei Paesi limitrofi.
“La guerra si è conclusa nel 2019 anni invece sembra finita ieri – racconta al Sir da Malakal Fabrizio Cavalletti, di Caritas italiana -. Tre anni fa era peggio ma la situazione è ancora catastrofica. La Chiesa locale deve affrontare una somma di emergenze. Oltre alla distribuzione di alimenti nel campo profughi la Caritas è impegnata nella promozione socio-economica tramite lo sviluppo agricolo. In queste zone il terreno è fertile, l’acqua non manca. Vogliono aiutare le persone a diventare autonomi nella produzione di cibo, per non dover continuare a dipendere dagli aiuti umanitari delle agenzie internazionali”. “Lavoriamo insieme sia sul piano nazionale con Caritas Sud Sudan, sia a livello diocesano nella risposta alle varie emergenze”, precisa Cavalletti.
Gli interventi Caritas consistono nella fornitura di sussidi in denaro, nel miglioramento dell’accesso all’acqua potabile, nella riabilitazione dei sistemi idrici, nell’installazione di punti d’acqua a energia solare e nella costruzione di strutture igienico-sanitarie.
Il tutto a beneficio di oltre 29.000 persone.
La Caritas sta inoltre offrendo spazi sicuri per donne e ragazze nei campi profughi, fornendo servizi di consulenza e assistenza psicosociale. Accanto a questo lavoro di emergenza, Caritas sta formando gruppi di volontari nelle parrocchie per l’integrazione e la riabilitazione delle persone affette da patologie mentali. Oltre al sostegno ai profughi l’intervento Caritas è focalizzato anche nel supporto all’agricoltura e all’allevamento. Dalla visita di questi giorni è emersa inoltre la richiesta di
“lavorare per lo sviluppo, per mantenere la pace”.
La situazione politica è infatti estremamente fragile e instabile. Le elezioni politiche sono state rimandate e questa, secondo i due vescovi incontrati durante il viaggio – mons. Stephen Nyodho Ador Majwok, vescovo di Malakal, e mons. Christian Carlassare, vescovo di Bentiu e amministratore apostolico di Rumbek – può essere una minaccia alla pace. Le divisioni etniche tra Dinka e Nuer e altre etnie (si parlano almeno 60 lingue locali) sono state infatti acuite dal conflitto. E i leader politici continuano a strumentalizzare certi argomenti per cercare il consenso. I cristiani sono quindi invitati “a non cadere in questi tranelli e a lavorare invece per l’armonia tra le comunità”.
“La pace deve essere la priorità assoluta – commenta don Marco Pagniello, direttore di Caritas italiana -. Con la guerra tutto è perduto e i segni della guerra non finiscono quando le guerre si dicono finite. Restano ferite come le divisioni etniche, la povertà, la mancanza di opportunità, le condizioni insalubri, la fame”. Secondo don Pagniello il lavoro del Papa per la pace in questi ultimi anni – il gesto storico di baciare i piedi al presidente della Repubblica del Sud Sudan Salva Kiir Mayardit, e ai vice presidenti, tra cui Riek Machar e Rebecca Nyandeng De Mabio – e poi il viaggio in Sud Sudan lo scorso anno “ha avuto un peso enorme per la riconciliazione ma i suoi messaggi non sono stati del tutto ascoltati.
Qui tutti temono che si torni alla situazione di cinque anni fa, quindi ad un nuovo conflitto”.
Dall’incontro con il vescovo comboniano padre Christian Carlassare sono emerse invece le enormi sfide che sta affrontando il Paese, colpito dall’ennesima alluvione che ha messo sott’acqua molte zone del territorio. La crisi economica sta mettendo in ginocchio il Sud Sudan. Lo Stato è senza fondi, anche a causa del blocco delle esportazioni petrolifere a causa della guerra in Sudan. Poliziotti, insegnanti e tutto il settore pubblico sono senza stipendio da mesi, aggravando la recessione economica e generando una tensione sociale pericolosa. Mons. Carlassare ha ribadito che “la speranza di una rinascita non è perduta anzi è viva nelle stesse comunità che rappresentano la vera forza del Paese e della Chiesa”.