Don Roberto Cassano è da nove anni parroco della chiesa di San Paolo della Croce a Corviale, una parrocchia che ha quarant’anni, l’età del palazzo che le scorre dietro per un chilometro. Con lui affrontiamo i problemi del quartiere alla luce del cammino, alla vigilia dell’assemblea diocesana di Roma “Ricucire lo strappo: oltre le disuguaglianze” che chiude il percorso portato avanti a partire da febbraio in occasione del 50° anniversario del convegno sui “Mali di Roma” del 1974.
Don Roberto, la parrocchia di Corviale rappresenta un osservatorio importante sui disagi e i problemi di Roma. Quali sono i mali più dolorosi e le disuguaglianze che attualmente gravano in particolare su questa parte periferica della capitale e quali le cause che li hanno generati?
Mi verrebbe da dire l’egoismo delle persone. Penso che se la gente fosse meno egoista potremmo fare tanto bene in più, aumentare le risorse umane ed economiche verso chi ha veramente bisogno. Non solo, chi non ha bisogno e viene a chiedere comunque e invece potrebbe dare una mano. Quello che ho scoperto in nove anni qui è che ci sono poveri veri e poveri virtuali. C’è tanta gente infatti a cui non basta vivere dignitosamente senza grandi pretese, ma sente la necessità di soddisfare i grandi desideri indotti dalla televisione, che li porta a bussare, a chiedere. Tante di queste persone vengono a chiedere aiuto semplicemente perché i soldi che hanno e che dovrebbero spendere per i beni di prima necessità, li consumano nel gioco, comprando gratta e vinci oppure li spendono per altre forme di gola, come droga, sigarette, alcol. Certo, la ludopatia è una problematica sociale ma non fanno nulla per aiutarsi. I veri poveri che ci sono, dobbiamo stanarli, non vengono a chiedere, non si fanno avanti. Diversi di loro hanno rifiutato l’aiuto, per dignità o orgoglio. Quando sono arrivato c’era qualche politico che voleva buttare giù il palazzo. Un’idea folle, pensavo all’inizio ma che in fondo potrebbe anche avere un fondo di ragione. Dopo tanti anni penso che forse non lo abbattono non tanto perché ritengano che non sia giusto, ma perché il palazzo, così come attualmente è gestito e curato, continua ad essere sfruttato, ad essere una gallina dalle uova d’oro. Basti pensare ai fondi spesi per ristrutturazioni e investimenti. Lo spaccio esiste dappertutto e certamente non solo a Corviale. Non abbiamo mali specifici se non il fatto che i mass media devono sempre e comunque tirare fuori qualcosa per fare notizia. Abbiamo gli stessi problemi che hanno tutti: droga, microcriminalità…
Parafrasando Cormac McCarthy possiamo dire che Corviale non è un palazzo per vecchi. È vero che la tipologia di architettura tende ad imprigionare i suoi abitanti, per mancanza di spazi e servizi, ma da anziani e fragili basta la rottura di un ascensore per vivere da reclusi. Questo provoca solitudine ed abbandono e diseguaglianze. Qual è il compito di ogni cristiano di fronte a questa situazione?
La disuguaglianza più evidente è questa: non è un palazzo per vecchi ma è un palazzo di vecchi. Da numeri Ater risulta che il 40% degli abitanti del palazzo sono anziani, soli. Il compito del cristiano è fare rete, essere solidale con il vicino secondo l’insegnamento della parabola del buon samaritano. Devo dire infatti che in presenza di un bisogno c’è sempre qualcuno disposto ad aiutare, ma in questo caso il problema è istituzionale; c’è gente ad esempio che non riesce a curarsi perché non può o non riesce ad accedere completamente e in tempi brevi al sistema sanitario nazionale. Mancano le istituzioni.
A volte, e Corviale non fa eccezione, si ha come l’impressione che i mali e le diseguaglianze siano autorigeneranti. Grazie ad alcune operazioni di polizia, ad esempio, si riesce a togliere dal territorio qualche elemento delinquenziale ma succede sempre che ne esca qualcuno di nuovo a prendersi il territorio di nuovo libero. A volte più giovani di quelli che li hanno preceduti. Come intervenire in questo caso? Quale può essere l’apporto della Chiesa?
Sono situazioni che spesso si tramandano di padre in figlio, le famiglie che hanno vissuto in un certo livello di delinquenza per gran parte trasmettono questo stile di vita ai propri figli. È difficile quindi intervenire e contrastare, soprattutto in riferimento ai giovani, questa catena di disagio e disuguaglianza con specifici piani di recupero. A questo poi si aggiunge il fenomeno delle cattive frequentazioni che a volte arrivano a coinvolgere ragazzi di altre famiglie; avere al posto di queste costruzioni enormi e opprimenti luoghi più piccoli e a misura d’uomo e di famiglia probabilmente aiuterebbe a gestire meglio anche questo aspetto. Questo tipo di struttura abitativa a volte diventa alienante e porta con sé depressione e insoddisfazione oltre che causare disturbi psicologici che possono sfociare anche in comportamenti delinquenziali. Una speranza potrebbe arrivare dalla divisione del comprensorio di Corviale in quarantasette palazzine, senza dover buttare giù il palazzo, anche se in questo modo rimarrebbe comunque inalterato il problema della promiscuità. Zizzania e grano buono cresceranno sempre insieme.
Il convegno promosso 50 anni fa dal cardinale Ugo Poletti si intitolava: la responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità nella diocesi di Roma. Oggi si parla di “dis-uguaglianze” da ricucire. In che modo questi temi interrogano il nostro essere cristiani nel mondo di oggi?
I cristiani ci sono ma sono fermi, addormentati, silenti. Guardiamo al Giubileo, non abbiamo i volontari necessari. La partecipazione dei fedeli poi è innegabilmente ridotta. C’è una perdita di fede e anche se tanta gente continua a credere, sicuramente non frequenta più, né la chiesa né i Sacramenti. Negli anni settanta, ai tempi del convegno, ma anche negli anni ottante, le chiese erano piene compresa la nostra chiesa di Corviale. Oggi, più tempo passa e più stiamo diventando una minoranza, come diceva Benedetto XVI: un piccolo gregge. Inoltre, quelli che frequentano sembra abbiano subìto un annacquamento dei valori cristiani, magari tra loro ci sarà anche chi troverà legittimo il divorzio e l’aborto; si è nuovamente indurito il cuore come con i farisei al tempo di Gesù. Dunque pochi cristiani attivi e soprattutto mancanza di fede e quei pochi che ci sono spesso vivono una fede annacquata. Ecco perché la risposta alle necessità e ai bisogni è diminuita. Si tende ad essere egoisti. Tutto questo non solo ci deve interrogare. Bisogna ritornare alla fonte e ripartire dai piccoli gruppi cristiani che sono rimasti. Il Giubileo, che papa Francesco ha voluto fondare sulla speranza, ci invita a riappropriarci del nostro battesimo, la nostra terra promessa. Solo così ritorneremo ad essere lievito anche se ci vorranno anni e soprattutto l’intervento di Gesù Cristo. Alla fine è Lui che decide. L’unica speranza che ho è radicata in Cristo Gesù e, guardando al Giubileo che arriva, spero che intervenga in maniera creativa per cambiare i cuori degli uomini.