Leggere e meditare Agostino nel tempo presente

In tempi nei quali siamo orientati più all’agire e al sentire che al pensare, la lezione agostiniana risulterà di perenne attualità e il cibo che ne riceviamo sarà sempre fresco e nutriente per il nostro stare nel mondo e nella Chiesa

(Foto Vatican Media)

Perché continuare a nutrire le nostre menti e i nostri cuori con le opere di sant’Agostino in questo XXI secolo? Un autore così lontano nel tempo perché dovrebbe continuare ad ispirare i nostri pensieri di credenti? Il cibo che ci propone non rischia di essere scaduto e quindi per certi aspetti anche tossico? Eppure, anche oggi, ma non solo, non è affatto così. L’alimento resta fresco e nutriente in un tempo per la Chiesa e la società nel quale, come ha più volte detto e scritto Papa Francesco e altri prima di lui, corriamo il rischio del neo-pelagianesimo? Di cosa si tratta? L’eresia di Pelagio, vissuto a Roma nel IV secolo, consiste nel ritenere che l’uomo, anche se segnato dal peccato d’origine, tuttavia, con la scelta di adesione a Dio in pratica si salvi con le proprie forze, in quanto la giustificazione dipende da lui e dalla posizione che assume di fronte al Creatore. Si tratta di un’eresia in quanto esclude il carattere di dono gratuito della salvezza, il cui autore assoluto è Dio stesso nell’uomo.

Nonostante le ripetute condanne, il pericolo di un moralismo ascetico e stoico, quale quello di Pelagio, è sempre presente come tentazione del cristiano. Papa Francesco ci mette in guardia dall’incorrere in questo rischio. In particolare, nel suo discorso al convegno di Firenze ha voluto sottolineare la valenza ecclesiale di questo rischio, indicando nella persona di Cristo il nucleo della dottrina cristiana: l’eresia pelagiana “spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. […] La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare”. E questa inquietudine è tipica della vicenda e del pensiero di Agostino.

Egli ha opposto, con radicale adesione al messaggio evangelico, alla tentazione pelagiana, la dottrina del primato della grazia sull’agire e sullo stesso essere umano, tanto da essere denominato il “dottore della grazia”. Questo significa che l’azione di Dio precede l’umano e lo interpella. E la grazia ha sempre a che fare con la bellezza.

Suggestivo il passaggio delle Confessioni (10, 27.38), in cui il santo vescovo così si esprime poeticamente:

“Tardi ti ho amato,
bellezza così antica e così nuova,
tardi ti ho amato.
Tu eri dentro di me, e io fuori.
[…] Mi hai chiamato,
e il tuo grido ha squarciato la mia sordità”.

Rispetto al dono di Dio (grazia), che ci precede saremo sempre in ritardo e direi “ritardati”, a meno che non abbandoniamo l’esteriorità per interpellare la nostra intimità più profonda. L’influsso dell’Ipponate sul pensiero moderno, non solo teologico, si mostra soprattutto a partire dalla centralità dell’interiorità, come luogo e sacrario in cui abita l’Eterno: “E Tu eri più dentro in me della mia parte più interna e più alto della mia parte più alta” (Confessioni, III, 6.11), poiché “la verità abita nell’interiorità dell’uomo” (De vera religione, XXXIX, 72), non al di fuori della soggettività, tema caro alla modernità filosofica, la cui cifra, nonostante questo profondo influsso, può essere considerata in chiave proprio neo-pelagiana.

Il primato della grazia, tuttavia, non deresponsabilizza l’uomo, ma lo interpella. È famoso il detto agostiniano, secondo cui “Dio, che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te” (Sermo CLXIX, 13).

E neppure il dono ci esime dall’esercizio del pensiero in quanto il santo vescovo non aderisce a una fede cieca e meramente emotiva. Ha scritto a riguardo parole memorabili, che ci interpellano in profondità: «credere non è altro che pensare assentendo. Infatti, non ognuno che pensa crede, dato che parecchi pensano proprio per non credere; ma ognuno che crede pensa, pensa con il credere e crede con il pensare. […] nessuno può da se stesso dare inizio o completamento alla fede, ma la nostra sufficienza viene da Dio, perché la fede che non pensa è nulla» (De praedestinatione sanctorum, 2, 5).

In tempi nei quali siamo orientati più all’agire e al sentire che al pensare, la lezione agostiniana risulterà di perenne attualità e il cibo che ne riceviamo sarà sempre fresco e nutriente per il nostro stare nel mondo e nella Chiesa.

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