Di nuovo con il fiato sospeso. Iran ed Hezbollah promettono ritorsioni contro Israele, dopo i colpi inferti al gruppo libanese e l’uccisione di Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas, colpito da un razzo teleguidato a Teheran, dove si trovava per l’insediamento del nuovo presidente Pezeshkian. La situazione sembra in caduta libera, stando alle parole di Blinken, che, mentre Washington mobilita le forze aeronavali a protezione di Tel Aviv, mette in conto un “attacco preventivo” israeliano contro la Repubblica islamica.
Gli occhi sono di nuovo rivolti all’Iran, dopo l’attacco all’ambasciata a Damasco del 1° aprile (tacendo delle nebbie che avvolgono l’incidente aereo di Raisi). Nuovamente il dilemma: reagire con veemenza, per vendicare l’affronto, oppure escogitare risposte che evitino l’innesco di una guerra che minaccerebbe l’esistenza stessa della Repubblica islamica? Vero è che il ministero degli esteri ha parlato di una punizione certa, ma conforme al diritto internazionale a tutela della sicurezza e della sovranità territoriale di uno Stato violato dall’esterno. Questo non vuol dire opzione incruenta, giacché quel diritto invocato autorizza la reazione militare. Nondimeno, pur denunciando l’ennesimo doppiopesismo occidentale, aggiunge di non avere intenzione di fare esplodere la polveriera mediorientale. Sicché, mentre gli Usa chiedono a Israele di contenere le controrepliche, la Russia potrebbe fornire all’Iran sistemi di difesa aerea.
Di sicuro c’è solo che il governo di Tel Aviv, al di là dei minuetti negoziali con Egitto e Qatar, ha mostrato di non voler scendere a patti per interrompere la mattanza nella Striscia. Ma la domanda fondamentale non può non investire le ragioni che muovono Netanyahu ad alzare il livello della tensione.A riguardo può aiutare scomporre l’analisi in due dimensioni, per poi ritrovarne la convergenza. La prima riguarda la vicenda del premier. Ricordando il clima arroventato in cui piombò l’assalto del 7 ottobre, è bene tenere a mente le vicissitudini che stavano attanagliando Netanyahu, toccato da inchieste di corruzione e dalle proteste di una piazza che lo accusava di una riforma golpista intenta ad assoggettare la magistratura al governo. L’azione su Gaza ha messo tra parentesi quelle traversie, trasformando l’esecutivo in un gabinetto di guerra che, proprio perché tale, dal conflitto trae forza e ragion d’essere. D’altra parte, le stragi nella Striscia hanno condotto in un vicolo cieco, squalificando l’immagine di Israele agli occhi di larga parte dell’opinione pubblica mondiale. Sicché la frustrazione può suggerire di intorbidire ulteriormente le acque, congelando le iniziative di quei settori di cittadinanza israeliana che adesso pretendono di sapere dove conduca la “navigazione a vista” di Netanyahu, laddove essa non coincida con i proclami dell’ultradestra sionista, che non fa mistero di perseguire il disegno territoriale dell’Israele biblico decimando la gente palestinese.
A quest’altezza, il ragionamento interseca la ragion di Stato. Per gettare uno spiraglio di luce sulla comprensione, può servire considerare l’attuale frangente estero. Segnatamente, il prossimo avvicendamento alla Casa Bianca e l’insediamento a Teheran del “laico” Pezeshkiah, di tendenze più moderate rispetto al predecessore. Per recuperare lustro e legittimità, Israele necessita di tornare a rappresentarsi come baionetta delle liberaldemocrazie innestata contro i nemici che, in quanto suoi, sono anche dell’Occidente. Proprio per questo l’ipotesi di un Iran dialogante non gli sarebbe affatto congeniale. Peraltro, il tatticismo di Netanyahu non sarebbe nuovo a cercare profitto nella radicalizzazione altrui: basti considerare il sostegno dichiaratamente prestato all’ascesa di Hamas al fine di portare il confronto sul terreno dello scontro irriducibile, senza compromessi di sorta con la causa palestinese.Nella logica del “tanto peggio tanto meglio” si iscriverebbe dunque l’opportunità di agganciare l’interesse degli Usa a disimpegnarsi dal quadrante ucraino, troppo impegnativo per arrivare ai risultati promessi dai toni da crociata spesi da Biden. Sicché riportare l’attenzione di Washington sull’Iran bellicoso (specialmente con l’inquilino repubblicano alla Casa Bianca) potrebbe essere letta come l’occasione di forzare una reciproca comodità.
Sul punto si osservi la tempistica degli ultimi scontri con Hezbollah e dell’uccisione di Haniyeh, avvenuti all’indomani della trionfale visita al Congresso Usa: un gesto per portare la relazione con gli Stati Uniti sul piano iper-semplificato del “con Israele o contro Israele”. Ovvia la risposta a un quesito posto in questi termini, sufficiente per reclamare un’autonomia d’azione non discutibile, estorta all’establishment politico statunitense, coinvolto in una tornata elettorale così tormentata da non potersi permettere tentennamenti che metterebbero a rischio sostegni di antica ascendenza.
Eppure, se fosse questo il calcolo soggiacente, ci sarebbero diversi elementi di fallacia su cui ragionare. Tutti raccolti attorno al concetto di anacronismo.
Il rischio di un allargamento del conflitto, infatti, non troverebbe il mondo tal quale era nello “stato d’eccezione” globale vigente durante lo scontro manicheo contro l’Asse del Male, rappresentato dall’internazionale jihadista.
Allora gli Usa (vicenda irachena a parte) riscossero la solidarietà di Russia e Cina (ma anche India e altri), cointeressate a cavalcare l’onda per soffocare i rispettivi islamismi domestici, nonché attente a sfruttare i precedenti derogatori confezionati con disinvoltura dalla Dottrina Bush e dalle “non-regole”, quando la mancanza di autorizzazioni dell’Onu alle guerre preventive parvero non porre problemi di legittimità sostanziale. Ma all’epoca non esistevano, in estensione e intensità, le medesime rivalità che oggi impegnano la contesa tra unipolarismo e mulitpolarismo.
Oggi una guerra in Medioriente infiammerebbe ancor più uno dei terreni di confronto tra i contendenti globali.
La Russia ha nell’Iran un alleato e non starebbe certo a guardare, come non l’ha fatto quando si è trattato di intervenire a protezione della Siria. Anziché contentarsi dei risultati in Donbass, il Cremlino sarebbe spinto a partecipare – quanto direttamente non si può dire – secondo il medesimo criterio che l’ha spinto a opporsi all’allargamento della Nato in Ucraina aprendo una guerra (che è geostrategica e non territoriale, a dispetto di certo riduzionismo interpretativo) volta scongiurare, con l’atlantizzazione del Mar Nero, la preclusione delle rotte russe verso l’Africa e l’Asia meridionale.
La guerra allargata in Medioriente poi rafforzerebbe la spinta della Cina ad accreditarsi come traino di una governance mondiale alternativa, a fronte del deterioramento dell’immagine dell’Occidente collettivo. Quello stesso Occidente cui oggi diverse società del Sud globale imputano i guasti di una decolonizzazione incompiuta, alla quale si contrappongono istanze di autodeterminazione e pari dignità sovrana di cui l’Iran stesso si fa paladino: principi a cui la cultura occidentale non è estranea, avendoli introdotti essa stessa nella modernità statuale quale oggi la conosciamo. Il connubio islamo-nazionalista alimentato da Teheran, ancora in tema di anacronismo, si contrapponendone armi in pugno all’Islam dei califfati professato dall’Isis e dall’eredità al-qaedista, fantasma dagli effetti compattanti che agitava e legittimava l’era derogatoria delle preventive wars.
Inoltre, una guerra in Medioriente difficilmente troverebbe la compagine occidentale dotata della sponda dei partner interpellati dagli Accordi di Abramo, che oggi strizzano l’occhio ai Brics per sfuggire alle strettoie delle fedeltà assolute. Senza contare il rischio che il supporto a Israele e Usa, in simile scenario, visti gli eclatanti risvolti di Gaza, porrebbe le “petrolmonarchie” a forte rischio di detronizzazione, con pretendenti interni pronti a mobilitare la sollevazione dei sudditi. E quali altri focolai Washington sarebbe chiamato a fronteggiare, dalla Penisola arabica al Sudest asiatico, proprio ora che cerca soci per il presidio talassocratico del Pacifico in funzione anti-cinese?
Che dire poi del rischio “tenuta” in seno alla Nato stessa, viste le posizioni della Turchia, che ha motivo di associare la solidarietà islamica alle proiezioni nel Mediterraneo e all’ambizione di farsi snodo energetico tra Europa e Asia centrale?
Soprattutto vale un dato: gli Usa di oggi non solo quelli della lotta senza quartiere all’Asse del Male, ma scontano un affanno da iperestensione accelerato esattamente dagli sforzi di quella stagione: volenti o nolenti, quanto potrebbero assecondare le forzature di un Israele indisciplinato, al punto da farsi trascinare in guerre insostenibili e controproducenti?
Sono domande e ragionamenti che tentano di rendere intelligibile un’epoca che fa dell’insicurezza emergenziale la cifra normalizzata” della legittimazione.
Questioni che rischiano di essere bruciate in un attimo dall’azzardo del fatto compiuto, nel drammatico mosaico di guerre che tiene in ostaggio il nostro presente.
* Pontificia Università Lateranense