Diplomazia umanitaria

È quella che porta avanti la Santa Sede in un mondo che si dimostra stanco di pensare alle altrui guerre e sofferenze. Questa diplomazia, così vicina agli uomini che patiscono, è una risposta faticosa: non è figlia di un’illusione pacifista quanto piuttosto del realismo di chi va a guardare gli effetti della guerra sulla popolazione stremata. È la diplomazia della Chiesa che si fa samaritana, mentre altre guerre e grandi sfide politiche distraggono il mondo che sente il suo futuro sul crinale della storia

Kiev, incontro card. Parolin con il Consiglio panucraino (foto Ugcc)

Dopo quasi due anni e mezzo la guerra Russia-Ucraina ha perso il monopolio delle prime pagine, a meno che azioni più violente delle ordinarie non si impongano per l’elevato numero di vittime o l’efferatezza, come di recente è stato con gli attacchi russi agli ospedali di Kiev, polo pediatrico compreso.
In questo modus operandi anche la visita in Ucraina del segretario di Stato Vaticano, card. Pietro Parolin, è passata piuttosto in sordina, non diversamente dalla disattenzione in cui sfuma l’impegno costante che la Santa Sede profonde per la fine del conflitto e per portare soccorso alla popolazione aggredita. Il viaggio del cardinale in città ancora sotto feroci bombardamenti, durato cinque giorni, sarà probabilmente parso inutile dato che la pace non si intravvede. Eppure così non è.
È pur vero che lo stesso Parolin ha dichiarato che “al momento non ci sono le condizioni per un dialogo negoziale fra Mosca e Kiev, né tantomeno per una tregua”. Ed è altrettanto vero che, davanti alla venerata Madonna di Berdychiv, patrona dell’Ucraina, lo stesso ha invocato la pace come si invoca un miracolo, che per definizione è cosa straordinaria, al di fuori e al di sopra del consueto ordine della natura e, da Ciano in poi, la natura che gli uomini manifestano è anche quella della guerra e della distruzione dell’altro.
Eppure, per spiegare il perché del suo viaggio, il cardinale ha dichiarato che si è trattato di “offrire un contributo che passi pure dai colloqui politici” e, in effetti, non è mancato l’incontro con i vertici dello stato ucraino e con il presidente Zelensky, il quale ha precisato: “Si è discusso come arrivare ad una pace giusta anche con l’apporto del Vaticano”. Dato il passato non privo di tensioni, nate da incomprensioni (la famosa “bandiera bianca” di cui ha parlato Papa Francesco qualche mese fa), è un bel passo in avanti. Ma è il dialogo tra le parti in causa, le due nazioni in guerra, che non accenna ad aprirsi mentre i grandi della terra sono spettatori in un mondo in cui anche il fronte Israele-Hamas-Libano brucia e non trova pace.
Eppure, tanto più questo dialogo pare impossibile, con i grandi arroccati sulle proprie posizioni, tanto più si fa indispensabile il ruolo di chi si adopera affinché riprenda. Ci ha provato la Svizzera, organizzando il 15 e il 16 giugno una conferenza per la pace in Ucraina e che dovrebbe ripetersi in autunno. Lo fa la Santa sede da che il conflitto è divampato, partendo dalla subitanea visita del Papa all’ambasciatore russo in Vaticano e passando per tutti gli appelli e le preghiere dopo l’angelus della domenica per la “martoriata Ucraina”. Segni importanti ma non sufficienti: per tessere servono trama e ordito, telaio e navetta. Così la diplomazia si muove e muove i suoi fili, in un lungo e paziente lavorìo.
Come in un rammendo si cerca di unire i lembi strappati, ricostruendo un tessuto che non c’è più, così nello sforzo diplomatico ci si fa ponte perché il dialogo riprenda, abbatta muri di ostilità e silenzio, costruisca l’impensabile e aiuti là dove può.
Instancabilmente la Santa Sede cerca di dare sostegno ai civili, vittime del conflitto dei potenti. Le braccia operative del Papa sono quelle del segretario di Stato card. Parolin, del presidente della Cei card. Zuppi, dell’elemosiniere card. Krajewski. È un cammino di piccoli passi, qualche vittoria isolata e parziale come il ritorno di qualche prigioniero o deportato (tra i quali ci sono i bambini ucraini rapiti). Un cammino di alti obiettivi (la pace) e di aiuti concreti ai civili (materiale medico e alimentare). Una diplomazia lucida, che rispetta le parti ma si china accudente su chi è stato attaccato; una diplomazia lungimirante che non perde di vista né i grandi bisogni degli ucraini (le infrastrutture mediche sono state colpite a tal punto da diventare emergenza nazionale), né quelli dei 400 milioni di persone che nel mondo si sfamano grazie al grano ucraino (salvaguardia del corridoio che si imbarca il grano dal porto di Odessa).
Di tutte queste azioni, e di altre che neanche sappiamo, si compone quella “diplomazia umanitaria” che la Santa Sede porta avanti in un mondo che si dimostra stanco di pensare alle altrui guerre e sofferenze. Questa diplomazia, così vicina agli uomini che patiscono, è una risposta faticosa: non è figlia di un’illusione pacifista quanto piuttosto del realismo di chi va a guardare gli effetti della guerra sulla popolazione stremata. È la diplomazia della Chiesa che si fa samaritana, mentre altre guerre e grandi sfide politiche distraggono il mondo che sente il suo futuro sul crinale della storia. Per dirla con una metafora: lo show, ricco di colpi di scena, delle elezioni Usa supera di gran lunga il triste documentario degli effetti della guerra.

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