(da New York) “Kamala, potresti essere la prima a fare molte cose, ma assicurati di non essere l’ultima”. Questa raccomandazione della mamma che campeggia nella pagina del profilo ufficiale della vicepresidente statunitense Kamala Harris spiega chi è la futura candidata alla presidenza Usa. In quella frase ci sono le sfide affrontate e i traguardi raggiunti, ma anche la responsabilità di farlo per altre donne, per le minoranze, per chi è ancora escluso per il colore della sua pelle e le sue origini dal governo del Paese. Kamala Harris ha fatto la storia nel 2020 come la prima donna nera eletta vicepresidente degli Stati Uniti, infrangendo le barriere che hanno mantenuto gli uomini, in gran parte bianchi, radicati ai massimi livelli della politica americana per più di due secoli.
Da 24 ore potrebbe tornare a rifarla, dopo che domenica 21 luglio, il presidente Joe Biden si è ritirato dalla corsa alla Casa Bianca e ha lanciato la candidatura della sua vice alla presidenza degli Stati Uniti. Il passo indietro di Biden chiesto da settimane, è stato dipinto dalla stampa Usa come una decisione patriottica ed eroica, di un uomo che ha messo il Paese prima dei suoi interessi e che attorno alla figura della Harris ha provato a riunificare il partito e a spingerlo verso un obiettivo unico: sconfiggere il candidato repubblicano Donald Trump, la vera minaccia alla democrazia americana. Se la Harris vincerà otterrà un altro primato: quello di essere la prima donna di colore a sedere nello Studio Ovale.
La vicepresidente è finora l’unica candidata democratica dichiarata e in appena un giorno ha battuto il record di raccolta fondi, oltre 80 milioni; ha riportato nel partito i donatori che si erano allontanati; ha ottenuto il supporto di governatori ed ex presidenti e oltre 1340 delegati si sono schierati al suo fianco: ne mancano ancora oltre 600 per arrivare ai 1976 che le garantirebbero la nomination democratica. Se la vicepresidente toccherà quella soglia, sarà la prima donna afroamericana a guidare i Democratici.
Nata a Oakland, in California, da genitori riconosciuti come attivisti per i diritti civili, racconta spesso di aver partecipato alle manifestazioni già in passeggino e di essere cresciuta con adulti “che passavano tutto il tempo a marciare e a gridare per la giustizia”. Quando i genitori hanno divorziato, Kamala e la sorella Maya sono state cresciute dalla madre indiana, mentre il papà era giamaicano. È cresciuta nell’induismo e nel cristianesimo: il primo ereditato dalle radici, il secondo conosciuto attraverso una vicina di casa che la portava spesso alla Chiesa di Dio della 23esima Avenue a Oakland. Harris si considera una battista nera ed è sposata con Douglas Emhoff, un avvocato di Los Angeles ebreo. La sua biografia etnica, religiosa e culturale racconta una realtà molto presente negli Stati Uniti, ma spesso poco rappresentata a livello politico. La laurea in giurisprudenza e la scelta della carriera di pubblico ministero sono state un risvolto anche dell’impegno sociale respirato in famiglia, il suo ruolo di procuratore distrettuale di San Francisco e poi quello di procuratore generale in California hanno mostrato il suo volto battagliero, al punto che lo stesso Donald Trump ne ha finanziato la campagna. Rimane un’ombra di questo periodo della sua vita il suo disinteresse a perseguire gli autori di abusi sessuali dentro la Chiesa cattolica californiana, mentre si è sempre distinta per la stenua difesa dell’aborto e della comunità Lgbtq. Ha perseguito le compagnie petrolifere che optavano per il fracking come metodo di trivellazione e la sua azione è stata determinante nel siglare l’accordo da 25 miliardi durante la crisi dei mutui ipotecari del 2008. Vederla allineata alle politiche di Biden in questa campagna elettorale non le risparmierà le critiche per gli errori del suo capo: dalla crisi alle frontiere all’inflazione, fino alla spesa pubblica ingovernabile. Inoltre Harris non è la figura ideale per un partito ansioso di fare appello agli abitanti del Midwest, attratti da un Trump che nei sondaggi continua a prevalere di 1,9 punti percentuali sulla vicepresidente, anche se lei non ha ancora cominciato una campagna ufficiale.
Eppure Kamala resta la migliore opzione dei democratici, anche se non la più perfetta, ma è quella attorno a cui potranno placarsi le discordie interne e pensare alla vittoria di novembre.