Proseguono intensi i combattimenti nella Striscia di Gaza dove il bilancio delle vittime conta quasi 39mila morti palestinesi, oltre 89mila i feriti, secondo il ministero della sanità di Gaza controllato da Hamas. Dal fronte israeliano, fonti dell’esercito (Idf) parlano di oltre 1.526 israeliani e cittadini stranieri uccisi, la maggior parte il 7 ottobre e nel periodo immediatamente successivo. Di questi 326 uccisi a Gaza o lungo il confine in Israele dall’inizio dell’operazione di terra. I soldati feriti sono oltre 2100. Centoventi gli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas. La situazione, dal punto di vista umanitario, è sempre più drammatica: stime di organismi internazionali come Oms e Onu parlano di 1,9 milioni di gazawi sfollati interni (il 90% circa del totale degli abitanti) che hanno trovato rifugio in ricoveri di fortuna, tende, scuole e strutture dell’Unrwa. A fare il punto al Sir degli ultimi sviluppi dell’emergenza umanitaria a Gaza è Andrea De Domenico, direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari umanitari nei Territori Palestinesi Occupati (Ocha).
“La situazione è veramente complicata – spiega il direttore – perché dalla operazione di Rafah, avviata all’inizio di maggio, abbiamo avuto lo spostamento di tutta la popolazione locale, circa 1.400.000 persone, verso quel fazzoletto di territorio noto come al-Mawasi, una zona praticamente di dune, per la maggior parte davanti al mare, senza servizi, senza acqua, senza accesso all’ospedale. Abbiamo una concentrazione di persone che si stimano intorno a 1,8 milioni, in questo momento. Allo stesso tempo abbiamo perso l’accesso al passaggio ‘fluido’ che eravamo riusciti finalmente, dopo mesi di difficoltà, più o meno a stabilizzare a Rafah, valico che è ancora chiuso. L’unico aperto è quello israeliano di Kerem Shalom (Karem Abu Salem sul lato palestinese). Quindi tutto d’un tratto ci siamo trovati con una popolazione che ha urgente bisogno di aiuti perché priva di tutto.
C’è bisogno di uno sforzo importante da un punto di vista umanitario per permettere a queste famiglie di vivere in maniera dignitosa.
Allo stesso tempo abbiamo perso l’accesso logistico che porta all’interno la Striscia. Il Governo israeliano, comunque, ha continuato a lasciare passare i camion all’interno, cioè dall’Egitto verso la Striscia di Gaza”.
Quali sono le maggiori difficoltà nel portare aiuto alla popolazione?
La difficoltà principale è la sicurezza interna, perché non c’è nessuna istituzione che mantenga l’ordine pubblico. La polizia civile che operava dentro la Striscia è stata sistematicamente presa di mira da parte degli israeliani perché la vedono come affiliata ad Hamas. Questo vuoto ha permesso lo sviluppo di gruppi criminali facenti capo ad alcune famiglie che hanno preso praticamente il controllo del primo tratto di uscita dal valico di Kerem Shalom e sistematicamente assaltano i camion dell’assistenza umanitaria. Abbiamo lavorato a lungo per trovare soluzioni e compromessi con questi gruppi criminali che a volte hanno funzionato, a volte no. In questo momento stiamo facendo transitare gli aiuti umanitari sulla strada (fence road) che passa al di fuori della Striscia di Gaza e che costeggia la barriera israeliana, in particolare i camion che trasportano i beni di maggiore valore, quelli che hanno più mercato, come kit sanitari e taniche collassabili per l’acqua. Si tratta di oggetti di uso comune ma che nella quotidianità di Gaza sono diventati preziosi come l’oro e per questo vengono saccheggiati dalle bande criminali. I beni di poco valore, come la farina ora facilmente reperibile e a prezzi contenuti, non attraggono i criminali.
Questo per il Sud di Gaza. Per quanto riguarda invece il nord della Striscia, la situazione umanitaria sembra peggiore con gli aiuti che arrivano a singhiozzo. Per quale motivo?
Dal Sud (Rafah, Kerem Shalom) non arriva quasi nulla al Nord. In questi giorni la mia squadra, con due camion di aiuti, è andato al Nord a visitare alcune zone di sfollati nella parte del ‘Beach Camp’ di Gaza City, che all’inizio del conflitto era stata pesantemente bombardata costringendo la popolazione a spostarsi verso il mare. Hanno visitato alcune scuole usate come rifugi dagli sfollati che vi vivono in condizioni indegne. La difficoltà maggiore per il nord è arrivarci perché si devono superare check point e posti di blocco israeliani posti su strade come la Salah al-Din che attraversa Gaza da nord a sud, un tempo a quattro corsie e oggi ridotta in alcuni punti ad una specie di mulattiera. Portare aiuti da Sud a Nord è molto complicato anche perché spesso Israele non concede permessi alle missioni umanitarie. L’unica assistenza che entra al nord transita dal valico di Erez West (As-Siafa/Zikim) che ha capacità di ingresso relativamente limitate (40/50 camion al giorno). Inoltre, nelle ultime settimane, ci sono stati molti ordini di evacuazione che hanno spinto la popolazione verso il sud affollando i check point dove si sono verificati gravi incidenti con i soldati israeliani che hanno sparato su alcuni civili che fuggivano dall’incubo di Gaza city. Non si capisce se bene se ci fossero tra loro dei miliziani.
Tutto questo accade mentre si combatte con reciproci scambi di accuse: Israele accusa Hamas di usare i civili come scudi umani e Hamas accusa Israele di colpire ospedali, scuole, moschee…
I gruppi armati che utilizzano infrastrutture civili, come ospedali e scuole, per proteggersi compiono una violazione del diritto internazionale umanitario che ogni belligerante è chiamato a rispettare. Pochi giorni fa abbiamo avuto il permesso di estrarre da sepolture improvvisate – rinvenute lungo le mura di un centro di formazione dell’Unrwa a Khan Yunis, che ospitava migliaia di sfollati – i corpi di tanti civili rimasti uccisi in un attacco israeliano. Lo scopo è stato dare una sepoltura dignitosa a queste vittime che ancora non hanno un nome. Dover estrarre corpi di bambini, di civili dalle scuole non è normale.
Le scuole non possono diventare dei cimiteri.
Sicuramente ci sono molte strutture militari e miliziani presenti all’interno di luoghi dove vivono i civili. Nelle ultime settimane abbiamo anche registrato bombardamenti – in zone dichiarate da Israele di ‘sicurezza umanitaria’ (humanitarian safe zone) – volti a colpire uno o due individui ma che alla fine hanno ucciso un centinaio di persone. Credo che ci siano altri metodi per poter ottenere lo stesso scopo.
La tecnologia oggi ci permette di identificare, seguire e colpire un obiettivo quando è meno esposto, limitando gli effetti collaterali.
Ritiene la risposta di Israele sproporzionata?
Secondo me si è perso completamente il senso della misura: per colpire un terrorista si giustifica il fatto di poter uccidere centinaia di persone. Come accaduto il 13 luglio scorso nel bombardamento israeliano a Mawasi, (ordinato per uccidere Mohammed Deif, leader del braccio armato di Hamas, ndr.). All’ospedale Nasser, dove erano stati portati molti dei feriti e delle vittime, oltre 100, i miei colleghi hanno visto scene abominevoli in un caos totale. Sembrava un girone infernale dantesco con scene di una crudeltà assoluta.
Bisogna mettere un limite alla disumanità.
Capisco la preoccupazione di Israele verso la propria sicurezza ma non si possono massacrare civili costantemente. Vorrei anche far notare che in occasione del recente attacco russo all’ospedale pediatrico di Kiev i giornali di tutto il mondo, e in particolare in Italia, hanno titolato ‘bombe sui bambini’. Non mi sembra accada la stessa cosa per Gaza. C’è una lettura del contesto irrispettosa della dignità umana.
A Gaza si muore anche per mancanza di cure. Non c’è ospedale nella Striscia che non sia stato colpito.
Dall’inizio della guerra abbiamo visto la sistematicità con cui gli ospedali sono stati obiettivi di operazioni militari, con ripetute violazioni da parte dei due belligeranti. La violazione dell’uno non giustifica quella dell’altro. Gli abitanti di Gaza conoscono bene questo modo di combattere e nella loro memoria sono scolpite le immagini delle fosse comuni rinvenute negli ospedali di Al-Shifa e Nasser, dopo le operazioni militari condotte dentro i nosocomi. La guerra sta avendo un impatto catastrofico nella struttura sanitaria di Gaza. Prima della guerra il 64% dei posti letto ospedalieri si trovava nel nord di Gaza. Questa capacità è stata annientata ma c’è stata anche la determinazione dei sanitari a ricominciare ogni volta, ripartendo da ciò che era rimasto in piedi. Il problema adesso è la quantità e la qualità del servizio che viene dato. Nel sud di Gaza l’European Gaza hospital è stato l’ultimo nosocomio dove era possibile fare una Tac, operazioni in laparoscopia. Sarebbe interessante capire quante morti, indirettamente legate alla guerra, sono state provocate dallo smantellamento delle strutture sanitarie di Gaza. Ci sono diverse patologie trattabili che non sono state più curate in questi mesi. I diabetici, per esempio, non trovano insulina, non c’è’ possibilità di fare dialisi, per non parlare dei malati oncologici. Con l’Oms, con le ong, abbiamo fatto salti mortali per dare risposte in campo sanitario, montando ospedali da campo, ripristinando strutture ospedaliere danneggiate. In alcuni casi è accaduto anche che ospedali da campo, posizionati in accordo con Israele, sono stati successivamente spostati perché i combattimenti si erano avvicinati. La guerra continua imperterrita ad andare avanti senza rispetto per le strutture mediche. Ribadisco le parole del Segretario dell’Onu, Antonio Guterres: ‘questa è una punizione collettiva contro il popolo di Gaza’. Noi lavoriamo per dare assistenza all’interno di Gaza, ma serve una soluzione politica.