Una teologia “dal” Mediterraneo come “militanza per la pace”, attraversando “con la sapienza mite del Vangelo il polverone della violenza e della guerra che quotidianamente minano ogni certezza, con la speranza di un mondo dove ognuno si senta fratello e sorella” per rianimare la vocazione del “Mare dalle cinque sponde” all’incontro e alla costruzione della pace. In questa direzione si muove la Rete teologica mediterranea, che ha promosso a Palermo un Laboratorio internazionale di approfondimento transdisciplinare e sistematico sul tema “L’apporto di una teologia dal Mediterraneo per la costruzione di un futuro di pace”. Ne parliamo con don Vito Impellizzeri, preside della Facoltà Teologica di Sicilia “San Giovanni Evangelista”.
Com’è andato il Laboratorio promosso dalla Rete teologica mediterranea a Palermo?
A Palermo abbiamo raccolto il percorso di un intero anno. Ci eravamo incontrati più volte online nei mesi passati condividendo un percorso di riflessione sul Salmo 84 “Giustizia e pace si baceranno” a partire dalla realtà dei nostri Paesi. A Palermo abbiamo vissuto il momento finale di questo percorso. Abbiamo lavorato sul difficile tema della pace, senza scappare dai conflitti ma anche senza perdere la speranza. Si tratta di attraversare i conflitti, assumendoli responsabilmente con una “militanza” che è fatta di “speranza” e con “la logica del Regno di Dio”, con “la forza mite delle beatitudini”.
La teologia è una vera rivoluzione di pace perché ha la forza della mitezza, il potere leggero della povertà e la libertà della croce.
Questa è la nostra condizione e a Palermo abbiamo vissuto l’esperienza soprattutto del pensare insieme, dell’esserci “tra” di noi. Il “tra” è diventato il luogo sorgivo dove la teologia parte dall’ascolto, dalle narrazioni plurali e dunque dall’esperienza condivisa, nella complessità dell’umano, che attualmente riguarda la nostra storia e i nostri contesti, ma senza smarrire la misura umana del Mediterraneo.
Quanti teologi hanno partecipato all’incontro?
A Palermo eravamo circa una settantina di teologi da 12 Paesi: Tunisia, Marocco, Algeria, Turchia, Malta, Grecia, Spagna, Francia, Italia, Croazia, Romania, Israele. Tra noi c’erano anche una teologa israeliana e persone di fede islamica. È stato con noi l’arcivescovo di Palermo insieme ad altri vescovi siciliani ma anche il card. Jean Marc Aveline, arcivescovo di Marsiglia, impegnato in una tessitura ecclesiale mediterranea. Eravamo tanti e desiderosi di stare insieme.
Da chi è costituita la Rete?
La Rete teologica del Mediterraneo è composta da più di venti istituzioni teologiche che si affacciano sul Mediterraneo, sulle cinque sponde del Mediterraneo, ma noi ci spingiamo anche a Nord, fino in Romania e anche oltre. L’aspetto bello è che questa esperienza è nata dal basso: siamo diversi teologi e teologhe che ormai stiamo per iniziare il terzo anno di percorso insieme. L’idea – il vero principio vitale – è nata a Napoli con la visita di Papa Francesco, durante la quale ha dato l’input a una teologia dal Mediterraneo. Da Napoli si è scatenata una serie di incontri on line o in presenza, con il desiderio di voler pensare insieme a partire dal Mediterraneo, compreso come luogo teologico – cioè un luogo da cui Dio parla e da cui Dio si rivela in maniera viva, forte, presente – e come contesto. Da qui nasce una teologia contestuale, interrogandoci su cosa vuol dire, ad esempio, affrontare il tema del dialogo interreligioso nel Mediterraneo dove sono presenti tutte e tre le religioni abramitiche – il cristianesimo, l’ebraismo, l’islam – con un’attenzione al primato della storia e della contemporaneità, al dove accade la ricerca.
Come avete risposto a queste istanze?
Ci siamo posti con la libertà di teologi che dal basso vogliono condividere un percorso bello, forte, per pensare insieme, per condividere questa esperienza sorgiva del Mediterraneo. Gradualmente siamo passati da una teologia del Mediterraneo, un genitivo teologico, a una teologia dal Mediterraneo, un luogo sorgivo per la nostra riflessione di fede dove il primato è quello dell’ascolto: l’ascolto delle storie, dei luoghi, dei volti, delle ferite e dei drammi che abitano la storia nel contesto mediterraneo. In questa esperienza il fatto che siamo partiti dal basso ci ha permesso di strutturare tra noi una narrazione vera, che facilita vincoli di amicizia perché è una narrazione profonda dove l’ascoltarsi è il praticare la teologia che nasce dal condividere prospettive senza pregiudizi o riti da difendere, ma dal voler cominciare a pensare a partire dall’altro, dal suo contesto, dalla sua situazione e dalla sua condizione.
I temi chiave che stanno emergendo riguardano indubbiamente la pace.
La nostra agenda è dettata in maniera forte dal dramma che si sta consumando nella guerra tra Israele e la Palestina con questa esperienza anche di vittime innocenti, di morti ingiuste; la nostra agenda è dettata anche dall’esperienza degli sbarchi di umanità e dal dolore di vedere morire tanti migranti in mare. È una teologia che non può stare in silenzio o, vorrei dire, non schierarsi di fronte al grido e ai drammi che accadono nell’umanità. Non è una teologia neutrale, è una teologia militante, una teologia che sta dalla parte degli ultimi, che sta dalla parte delle vittime innocenti, una teologia che sta dalla parte di Dio perché ragiona con l’esserci del Crocifisso Risorto in ogni storia di ingiustizia e di innocenza perseguitata. Ma la nostra agenda è dettata anche dalla esigenza di culture interreligiose, nel riconoscimento di quelli che i Padri della Chiesa intuivano come “semina Verbi”. La misura umana del Mediterraneo è il nostro progetto perché sappiamo bene che Dio è dialogo e che ogni autentico dialogo ci permette l’esperienza condivisa di Dio: non l’ha forse promesso Gesù che dove due o tre si riuniscono nel Suo nome bello Lui è in mezzo a loro? Il Suo nome percepito nelle differenze delle culture, dei contesti e delle religioni: il Suo nome è il criterio per cui facciamo esperienza della Sua presenza tra di noi.
Nella tre giorni a Palermo avete parlato di una configurazione statutaria della Rete teologica mediterranea?
Non siamo ancora a una vera e propria configurazione statutaria, ma intendiamo procedere per gradi e per ora attraverso una sorta di patto poli-laterale in cui tutte le istituzioni coinvolte s’impegnano a lavorare insieme su progetti condivisi.
Vi siete già dati appuntamento per il 2025? Dove vi riunirete? E come proseguirete il cammino fino al prossimo incontro?
Ci sono tre proposte: la prima è di andare in Croazia, a Fiume, per il centenario della diocesi, l’altra è di andare a Malta, la terza è quella di fare un’esperienza tra la Spagna, a Granada, e il Marocco, a Rabat. Insieme lavoreremo per capire dove orientare l’esperienza del prossimo anno e in che modo lavorare su alcune piste di ricerca condivisa emerse, come quella del dialogo con l’ebraismo, il dialogo con l’islam, la questione della giustizia, della memoria e delle ferite come compito di una teologia che dal Mediterraneo si assuma la responsabilità di dar voce a chi non ha voce e di stare sempre dalla parte degli ultimi.
La minorità è il nostro luogo.
Cosa possono fare i teologi della Rete per “la costruzione di un futuro di pace”? Come possono “contaminare” positivamente la società in questo percorso di pace?
Si fa in due modi.
Il primo è generare un nuovo modo di pensare, generare il pensiero della pace, essere seminatori del pensiero della pace.
Facciamo riferimento alla pagina del Vangelo in cui Gesù parla del contadino che semina: per noi si tratta di seminare pace, attraverso il pensiero, che vuol dire concretamente dialoghi, incontri pubblici, libri, più interventi possibili in tutti i contesti. Il secondo è avviare processi relazionali con alterità forti, penso soprattutto alle alterità religiose e culturali. Il criterio del dialogo deve essere la reciprocità ospitale, dove nessuno è lì perché possiede qualcosa a cui l’altro si deve adeguare, ma perché considera l’altro più di se stesso. Penso a processi relazionali forti in ambienti dove la visibilità pubblica è determinante, penso al dibattito islamo-cristiano, ad esempio, su temi difficili di geopolitica, a luoghi dove la libertà religiosa non c’è. In questi processi relazionali il “tra”, il “noi” è il grembo dove si genera il nuovo pensare che comincia “grazie” all’altro e non “nonostante” l’altro. Insomma diventare un fermento religioso, politico, culturale, sociale, quello che Papa Francesco chiama i “poeti sociali”. Si tratta di tornare nei luoghi concreti ed essere lì fermento di pace e costruttori del “tra”.