Ritorno alle origini. Kevin Costner, il popolare attore e regista statunitense, a quasi trentacinque anni dal suo folgorante esordio alla regia con “Balla coi lupi” (1990), siede nuovamente dietro alla macchina da presa per un’altra grande avventura nel vecchio West. È “Horizon: An American Saga”, epopea a stelle e strisce che racconta gli anni della Guerra civile, tra 1861 e 1865, e la tessitura dello spirito di una Nazione composita, giocata tra speranze, eroismi, ma anche ambizioni e violenze. Costner si è messo in gioco in prima persona, non solo come regista e attore, ma anche come produttore esponendosi a un ingente investimento. Presentato in anteprima al 77° Festival di Cannes, il film è strutturato in due atti – la prima parte in sala con Warner Bros. dal 4 luglio, la seconda dal 15 agosto –, con un robusto cast di richiamo, tra cui Sienna Miller, Sam Worthington, Giovanni Ribisi, Will Patton, Jena Malone e Luke Wilson. È un’opera che oscilla tra ideali e ferocia, in cui si coglie tutta la bellezza e la dicotomia spinosa di un Paese in fioritura. Film visivamente ruvido ed elegante, marcato da qualche sbavatura e dispersione narrativa, che però affascina per l’energia poetica di racconto di Kevin Costner, che non ha mai abbandonato il mito della frontiera. Il punto Cnvf-Sir.
Orizzonti di gloria
Nord America 1861, inizio della Guerra civile. Una serie di esistenze si intreccia durante la corsa alla conquista di terreni da sottrarre al controllo dei nativi americani e da edificare. Nel Wyoming il cacciatore di fortuna Hays Ellison (Costner) si imbatte nella prostituta Marigold (Abbey Lee), cui decide di dare riparo – a lei e al bambino al suo seguito – difendendola da uno spregiudicato clan familiare. Sempre negli inospitali territori del West la vedova Francesca Kittredge (Sienna Miller) e sua figlia Diamond (Isabelle Fuhrman) vengono accolte in un accampamento di soldati pronti alla battaglia, tra questi l’integerrimo ma gentile Trent Gephardt (Sam Worthington). Ancora, una carovana di nuovi coloni guidata dal pragmatico Matthew van Weyden (Luke Wilson) affronta il deserto in cerca di fortuna, di terre nuove ad Horizon. E proprio in quelle terre si consuma un sanguinario braccio di ferro con le comunità dei nativi americani, che non vogliono cedere il passo ai conquistatori…
Il fascino intramontabile del western
Sul tracciato di “Ombre rosse” (“Stagecoach”, 1939) di John Ford ma anche dell’imponente racconto di “Nascita di una nazione” (“The Birth of a Nation”, 1915) di David Wark Griffith. Sembrano questi gli archetipi della nuova regia di Kevin Costner, “Horizon: An American Saga”. In realtà c’è molto del suo amore atavico per il West e per la genesi travagliata della storia statunitense, che l’autore ha più volte portato sullo schermo: da “Silverado” (1985) come attore, per la regia di Lawrence Kasdan, al suo capolavoro “Balla coi lupi” (1990), incoronato con sette Premi Oscar tra cui miglior film e regia; e ancora “Terra di confine. Open Range” (2003) di cui Costner è sempre regista, seguito dalle serie “Hatfields & McCoys” (2012) e soprattutto la popolare saga contemporanea “Yellowstone” (2018-2023), che gli ha permesso di vincere il Golden Globe come miglior interprete.
In “Horizon” Costner si è cimentato in un grande progetto narrativo, intrecciando produzione, regia, scrittura (insieme a Jon Baird) e interpretazione. “Mi sono autofinanziato – ha dichiarato – usando i miei soldi, ipotecando la mia proprietà, assumendomi tutti i rischi pur di seguire il mio sogno. Mi sono sentito come una persona che ha dovuto andare da sola nel far west, senza sapere cosa c’era ma non avendo paura”.
Il mito del West non è solo nell’ossatura della filmografia di Costner. A ben vedere, nelle linee di produzione culturale di Hollywood non è mai venuto meno tale genere, perché fa parte delle maglie identitarie del cinema e dell’industria culturale statunitense. Guardando solamente agli ultimi anni, sono richiamare di certo: “Il potere del cane” (“The Power of the Dog”, 2021) di Jane Campion, “Notizie dal mondo” (“News of the World”, 2020) di Paul Greengrass, “The Hateful Eight” (2015) di Quentin Tarantino, “I fratelli Sisters” (“The Sisters Brothers”, 2018) del francese Jacques Audiard, “Hostiles. Ostili” (2017) di Scott Cooper e “Il Grinta” (“True Grit”, 2010) dei fratelli Joel ed Ethan Coen.
Sulla frontiera tra idealismo, sangue e sogno
In “Horizon” Costner mette in racconto tutta la complessità di un mondo in rivolta e al contempo in costruzione, ricorrendo a una prova di regia muscolare. Riesce a mostrare con efficacia gli Stati Uniti paralizzati e polarizzati dalla Guerra di secessione, attraversati sia dal grande sogno delle conquiste delle nuove terre, tra corsa all’oro e nuove edificazioni cittadine, sia da atroci sopraffazioni e miserie dell’umano, soprattutto per la mano dura sulla comunità afroamericana e dei nativi. Il desiderio di Costner è quello di rendere giustizia alla Storia, tra lampi di fiducia e chiaroscuri, una storia intessuta da imprese eroiche, grandi sacrifici ma anche burrascose violenze. “In ‘Horizon’ – ha spiegato – esploriamo anche il lato dei nativi americani. (…) Questo è un film su quella collisione. È raccontato principalmente dal punto di vista dei coloni che arrivano, ma quando introduciamo i nativi americani, per me è stato davvero importante dare loro la dignità, la ferocia che avevano, perché stavano combattendo per il loro modo di vivere, la loro religione, la loro esistenza”.
Costner confeziona un’opera visivamente potente e imponente, irrorata da un’elegia elegante e nostalgica, puntellata da una fotografia avvolgente e incisiva, quella di J. Michael Muro, e da una colonna sonora evocativa, firmata dal Premio Oscar John Debney. La dimensione paesaggistica-naturale è certamente la componente dominante del racconto, un vero e proprio attante, che suggestiona lo spettatore e al contempo mette alla prova gli altri comprimari in campo. “Il paesaggio – ha indicato Costner – è così drammatico, così bello e così grande. Si va avanti all’infinito. La bellezza è nella crudezza. Dove un costruttore vede migliaia di case, io vedo uno spazio aperto che rappresenta il Giardino dell’Eden che abbiamo perso”.
A tanta bellezza che abita il campo dello sguardo, però, l’autore accosta anche una densità tematica, l’articolato profilo antropologico dei coloni, dei soldati e dei nativi americani, un corpus narrativo che l’autore non sempre riesce a governare compiutamente, con pieno controllo. Alcuni snodi sembrano infatti tirati via altri frammentari, rendendo il tutto poco compatto. Una “debolezza” sistemica che non depotenzia lo spirito del racconto. Dunque, seppure sbeccato, “Horizon: An American Saga” convince e affascina proprio per la scommessa produttiva-narrativa del suo autore, che riesce a innervare nelle maglie della storia grande pathos, entusiasmo, dolenza e diffusa poesia. Film complesso, problematico, per dibattiti.