Ahkmad guarda la foto di un giovane che ha appena ritrovato il fratello in un hotspot in Grecia. Lo credeva morto in uno dei tanti naufragi in mare. Ahkmad guarda quella foto raccolta dalla comunità di Sant’Egidio ed esposte ieri, 19 giugno, alla veglia di preghiera per le vittime delle migrazioni a Santa Maria in Trastevere, e spera. Di suo cugino Osama non sa più nulla dall’anno scorso ma ne parla al presente. Non si rassegna, nonostante i racconti dei suoi amici che gli hanno detto di averlo visto buttarsi da quella barca partita dalla Libia e naufragata proprio alla vigilia della Giornata del Rifugiato 2023, con il suo carico di vite spezzate. “Si chiama Osama – spiega al Sir – e ha 22 anni. Io l’ho lasciato in Siria da piccolo, quando sono partito per l’Italia, nel 2013, e lo aspettavo qui. È un ragazzo tranquillo, gli piaceva nuotare, giocare a calcetto”. Era andato in Libano e poi in Libia, dice: “Era in lista d’attesa per entrare in un corridoio umanitario ma il protocollo con la Libia non era stato ancora firmato e così ha deciso di partire”. In Libano, dove si era spostato, la situazione era difficile per i siriani: lo stavano per reimpatriare in Siria, dove avrebbe dovuto fare il servizio militare, a tempo indeterminato. E così è partito, per raggiungere Ahkmad: “L’anno scorso, proprio nel giorno della preghiera per la Giornata del rifugiato sono andato in Grecia per cercarlo: mi hanno messo in contatto con la Croce rossa ma non l’abbiamo trovato”. “È partito per costruire un futuro lontano dalla guerra”. Un sogno naufragato, come quello di tanti altri, in fondo al Mediterraneo.
Afghanistan. Per Dawood, afgano, oggi mediatore culturale per Sant’Egidio, è andata diversamente. “Sono arrivato 20 anni fa, quando avevo 17 anni – racconta al Sir -. Sono nato in guerra, ho vissuto tutto quello che c’era. Ho deciso di scappare, cercare un futuro, una vita migliore. Io appartengo a una minoranza scita, gli hazara, che sono stati sempre perseguitati in Afghanistan. Non avevo più speranza a vivere in un Paese così”. Oggi, se possibile, di speranza ce n’è ancora meno: “È un Paese dimenticato. Il mondo ha deciso di chiudere gli occhi, con la prima conferenza di Doha. Violenza sulle donne, scuole chiuse da mille giorni, povertà, disoccupazione, fuga di migliaia di giovani che cercano di scappare: l’Afghanistan è uno dei Paesi che produce il maggior numero di profughi”. Quel che è successo due giorni fa a largo di Roccella Jonica con 66 dispersi, di cui 26 bambini nasce da lì, dice Dawood: “Era una barca partita otto giorni fa dalla Turchia per arrivare in Italia ma il destino ha deciso diversamente”. Il viaggio di Dawood inizia a Kabul: si sposta in Iran, Turchia, Grecia, fino all’Italia, “camminando per tanti giorni e notti a piedi, sotto il camion, dentro il mare, attraversando il Mar Egeo, una traversata infinita, 55 ore di navigazione. Ho perso un amico”. In totale, il viaggio della speranza di Dawood dura 11 mesi. “Quando sono arrivato a Roma ho compiuto 18 anni e ho conosciuto la comunità Sant’Egidio – spiega -. Sono entrato nel movimento Gente di pace. Oggi mi occupo dell’immigrazione, dei corridoi, dando una mano al prossimo, a chi è come me, cercano di dar loro speranza. Pochi sono fortunati come lo sono stato io”.
“Tanti perdono la loro vita, sognando una vita migliore”.
Ai politici, a chi ha la possibilità di decidere, Dawood vuole chiedere una cosa sola: “Quante volte hai parlato con un rifugiato? Per capire quali sono i motivi veri per cui ha deciso di scappare?”
“I morti nel Mediterraneo sono il risultato dell’egoismo europeo: invece di aprire i canali sicuri, canali umanitari, dando i visti per i lavoratori, si permette questo. Chiudiamo le frontiere e costruiamo i muri”.
Invece, l’immigrazione è una realtà da affrontare con intelligenza, senza giudicare chi arriva in Europa: “Tanti nascono nei posti sbagliati ma ognuno ha il diritto di vivere tranquillamente, costruire in futuro e sperare in una vita migliore per sé e per i suoi familiari”.