Per recuperare la partecipazione dei cittadini, la politica deve diventare il luogo del confronto tra soluzioni credibili e abbandonare la tentazione suicida della radicalizzazione. Va in questa direzione l’analisi di Paolo Pombeni, storico e politologo tra i più autorevoli del nostro Paese, a cui abbiamo chiesto di commentare gli esiti della tornata elettorale.
Votanti sotto il 50% e purtroppo non è un fulmine a ciel sereno…
L’aumento dell’astensionismo è un trend molto preoccupante e che non riguarda soltanto l’Italia. Una parte del fenomeno è legata a situazioni e impedimenti oggettivi, ma la gran parte di esso dipende dal diffondersi della convinzione che la politica non possa fare niente per risolvere i problemi. C’è anche del vero in questa convinzione perché realisticamente è molto difficile incidere in ambiti sempre più complessi ed estesi. Il problema di fondo, però, è che a livello politico tutti promettono soluzioni drastiche e veloci e i cittadini non riescono a credere che esse siano possibili. Prendiamo il caso della sanità: il problema delle liste d’attesa non si può risolvere facendo fare le Tac agli specializzandi o immaginando di assumere molti più medici e infermieri quando non si sa da dove prendere i soldi per farlo.
Per contrastare l’astensionismo c’è soltanto una via da percorrere: la politica deve tornare a proporre soluzioni credibili e intorno al confronto tra proposte di questa natura si può creare lo spazio per recuperare la mobilitazione e la partecipazione. Purtroppo, invece, in questa fase si afferma una spinta alla radicalizzazione che è una politica suicida da entrambe le parti.
I risultati del voto hanno fatto parlare di un nuovo bipolarismo. Ne è convinto anche lei?
C’è stato un certo sconvolgimento della geografia elettorale, ma mi pare che la volatilità si sia manifestata soprattutto all’interno dei due campi. Per semplificare, una parte degli elettori che avevano votato per la Lega sono passati a Fratelli d’Italia e una parte degli elettori che avevano votato per i Cinquestelle hanno scelto il Pd. Poi ci sono le impennate collegate a fattori specifici di mobilitazione, come le proteste per la situazione di Gaza, a cui secondo me si può ricondurre almeno in parte il risultato di Alleanza Verdi e Sinistra che ha una forte componente giovanile.
Per poter parlare di un nuovo bipolarismo virtuoso e sanamente competitivo bisognerà vedere come si modificheranno gli equilibri nei due campi.
Se il centro-destra sarà capace di proporsi come una moderna forza conservatrice allora avrà la possibilità di sfondare verso il centro, cioè verso quella grande area centrale che vorrebbe una politica costruita intorno a programmi credibili. Un discorso del tutto analogo vale per il centro-sinistra. I risultati delle amministrative sono molto significativi in questo senso. Da una parte e dall’altra vincono coloro che hanno saputo governare bene o comunque in maniera accettabile.
Come si spiega allora la polarizzazione estremistica che trova spazio nella politica e prima ancora nella società?
Nelle fasi di grande transizione, come quella che stiamo vivendo, l’incertezza per il futuro assume un ruolo dominante e innesca due tipi di risposte. La prima è quella di chi vorrebbe fermare il mondo nell’illusione di poter tornare a un’età dell’oro che non è mai esistita, con un’appendice velenosa che è il nazionalismo, di cui vediamo ampiamente le conseguenze negative. La seconda è quella di chi pensa che, se bisogna cambiare tutto, allora è meglio anticipare, bruciare i tempi del cambiamento. E in questo caso la coda velenosa è nel mito della rivoluzione, nell’illusione di poter sbarcare da un momento all’altro in un mondo nuovo. Il guaio è che ciascuna di queste risposte sbagliate finisce per alimentare l’altra.