Il 10 giugno 2014 lo Stato Islamico (Isis) dichiarava l’istituzione di un califfato islamico a Mosul introducendo la legge islamica. Qualche settimana dopo (17 luglio) i cristiani locali furono costretti a scegliere tra lasciare la città, pagare la tassa di protezione (jizya) o affrontare l’esecuzione e la confisca delle loro proprietà. Tre giorni dopo sulle case dei cristiani rimasti cominciò ad apparire la lettera “ن” (n) ad indicare i “nazareni”, seguaci di Gesù. Era l’anticamera della grande fuga avvenuta nella notte tra il 6 e il 7 agosto di circa 120.000 cristiani che, dalle città e dai villaggi della Piana di Ninive, raggiunsero il più sicuro Kurdistan (Ankawa-Erbil, Dohuk, Zakho e Sulaymaniyah), lasciando in fretta e furia le loro proprietà che sarebbero state poi saccheggiate e depredate dai miliziani dell’Isis e, in diversi casi, anche dai loro vicini musulmani.
A distanza di 10 anni, e nonostante i loro territori siano stati liberati nel 2017 e le loro case, scuole e chiese rimesse in piedi dalle Chiese locali sostenute da agenzie umanitarie, “solo il 40% dei cristiani ha fatto rientro a Mosul e nei loro villaggi della Piana di Ninive”, denuncia il patriarca caldeo, card. Louis Raphael Sako, in una sua nota. Si tratta di qualche centinaio di persone, una minoranza rispetto a tutti coloro che hanno scelto stabilirsi permanentemente nella regione del Kurdistan.
Iraq svuotato dei cristiani. Le ragioni di questo mancato rientro dei cristiani e della conseguente fuga all’estero, secondo Mar Sako, vanno ricercate nella “mancanza di fiducia in un futuro stabile e sicuro, nella presenza di milizie e gruppi paramilitari nei loro luoghi di origine, nelle difficoltà nel trovare lavoro” e in problemi con le leggi, non ultima la norma che stabilisce che, “quando uno dei genitori si converte all’islam, anche il figlio deve essere registrato come musulmano”. A testimonianza di questa situazione, il patriarca caldeo ricorda anche che, “tra il 2003 e il 2023, circa 1.275 cristiani sono stati uccisi in Iraq”.
Tra loro anche sacerdoti, come padre Ragheed Ganni, e l’arcivescovo di Mosul, mons. Paulos Faraj Rahho. Nello stesso periodo 85 chiese e monasteri tra Baghdad, Mosul e Bassora sono stati bombardati da estremisti e dall’Isis, 23mila le case dei cristiani e di altri membri di minoranze occupate.
Soluzioni concrete. “Senza soluzioni concrete e permanenti”, afferma il card. Sako, “l’esodo dei cristiani non si arresterà e l’Iraq si svuoterà dei suoi abitanti originari che simboleggiano l’autenticità e la profondità storica e culturale dell’identità irachena”. Per questo motivo, tra le proposte avanzate dal patriarca alle istituzioni del Paese, quelle di “inserire la storia dei cristiani iracheni nei programmi scolastici, di ritirare le milizie dal territorio e affidare la sicurezza alla Polizia federale e a quella urbana, come prevedono le leggi costituzionali”. Un punto molto a cuore a Mar Sako è la denuncia “dell’incitazione all’odio. Coloro che vi fanno ricorso, anche sui social, devono essere condannati”.
In questo ambito “un ruolo importante” lo giocano quei “leader religiosi rispettati che hanno un grande impatto nella diffusione dei valori umani e nazionali comuni e nella preparazione di una generazione istruita e illuminata”.
“Per costruire uno Stato vero, democratico e civile, che restituisca speranza ai cittadini – afferma il cardinale – il governo e i partiti politici devono eliminare le tensioni settarie e coinvolgere i cittadini di tutti gli schieramenti e componenti religiose e nazionali educandoli alla lealtà assoluta verso la patria, elevandosi verso nuovi orizzonti, in modo da raggiungere sicurezza, stabilità e crescita e trattando con le ‘minoranze’ secondo il principio di cittadinanza e uguaglianza”.
“In questo modo – conclude – si favoriranno le competenze, le élite saranno incoraggiate a ritornare nel Paese, cresceranno investimenti e opportunità di lavoro. Tutto ciò contribuirà alla ricostruzione e alla prosperità del Paese e collocherà l’Iraq nel consesso delle nazioni civili”.