Debito estero. L’economista Riccardo Moro: “La situazione non è migliorata, serve una nuova architettura finanziaria internazionale”

Nel 2000 la Cei promosse una Campagna per la remissione del debito estero ai Paesi poveri. Negli anni molte cose sono migliorate e altre cambiate ma la questione di una moratoria sul debito si ripropone, soprattutto per i Paesi a basso e medio reddito, anche se è di più difficile soluzione. La società civile internazionale e giorni fa anche Papa Francesco sono tornati a chiedere "una nuova architettura finanziaria internazionale audace e creativa". L'economista Riccardo Moro, già coordinatore della Campagna giubilare della Cei per la remissione del debito estero ai Paesi poveri e oggi presidente di Civil7, la rete della società civile internazionale che dialoga con il G7 a presidenza italiana, in corso dal 13 giugno a Borgo Egnazia, in Puglia, fa il punto della situazione

“Una nuova architettura finanziaria internazionale audace e creativa” che in vista del Giubileo del 2025 porti a una moratoria del debito estero dei Paesi più poveri. Lo ha chiesto di nuovo Papa Francesco lo scorso 5 giugno. Ma a che punto è la situazione debitoria mondiale? Cosa sarebbe utile in questo momento per aiutare soprattutto i Paesi a basso e medio reddito? Lo abbiamo chiesto a Riccardo Moro, docente di politiche dello sviluppo e istituzioni economiche all’Università Statale di Milano. Nel 2000 Moro era stato coordinatore della Campagna giubilare della Cei per la remissione del debito estero ai Paesi poveri, con azioni concrete in Guinea Conakry e Zambia. Oggi è anche presidente di Civil7, la rete della società civile internazionale che dialoga con il G7, a presidenza italiana, in corso dal 13 giugno a Borgo Egnazia, in Puglia. “La situazione non è affatto migliorata – afferma Moro -, per questo da molte parti della società civile, da molti governi del Sud del mondo e oggi dal Papa c’è di nuovo una richiesta di intervento. Il punto è che oggi è più difficile intervenire” perché molti governi “non vogliono fare iniziative che portano beneficio a coloro che in questi anni sono stati più spregiudicati”.

Cosa è accaduto dopo la Campagna Cei del 2000 per la cancellazione del debito estero? Ci sono stati miglioramenti?
Si e no. Quello che si fece all’epoca del Giubileo fu importante ed efficace. Il primo risultato è stato il cambio d’impostazione delle politiche da parte del Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, e più in generale dei Paesi del Nord del mondo. Nei vent’anni precedenti vi erano state le cosiddette politiche di aggiustamento strutturale, di fatto politiche di liberalizzazione selvaggia che peggioravano le cose anziché migliorarle. Con la campagna del debito i Paesi del Nord del mondo e le istituzioni finanziarie internazionali si convinsero che servivano approcci diversi e lanciarono nel ’99 le cosiddette Poverty reduction strategies, che portarono l’anno successivo agli Obiettivi di sviluppo del millennio, sulla cui onda lunga oggi abbiamo l’Agenda 2030. Questo è un cambio importante a livello globale, specificamente sul debito. Le iniziative. di cancellazione portarono a un miglioramento della situazione finanziaria di molti Paesi, in particolare di quelli a basso reddito. Per qualche anno le cose andarono bene.

La Chiesa italiana lanciò allora due operazioni in Guinea Conakry e Zambia. Come è andata?
In Guinea Conakry, grazie alla cancellazione del debito dopo qualche mese si arrivò a riaprire la Borsa, chiusa da anni. Le cancellazioni ricrearono cioè condizioni di sostenibilità. L’operazione che avevamo proposto era politica, per riconoscere che quell’indebitamento era di fatto ingiusto. Quindi era corretto cancellare il debito per ricreare condizioni di sostenibilità e di responsabilità da parte dello stesso potenziale nuovo debitore, cioè di Paesi che dovevano tornare a potersi indebitare, ma a condizioni sostenibili. Perché è chiaro che nessuno può vivere senza anticipazioni di capitali: oggi viviamo in un’economia in cui l’anticipo di capitali serve per grandi investimenti non solo per le imprese ma anche per gli Stati. Il punto è che le condizioni allora non erano più sostenibili.

Cosa è capitato poi?
Proprio perché le cose andavano bene il monitoraggio è stato meno rigoroso. Sono poi avvenuti due eventi paralleli: la crisi del 2008 e i nuovi prestatori che offrono al Sud del mondo denaro facile in modo poco responsabile, anche in ragione delle ripristinate condizioni di stabilità. Uno di questi è sicuramente la Cina, ma ci sono anche diversi operatori privati che tornano in gioco. Il 2008 ha creato una forte crisi, prima finanziaria e poi economica in tutto il mondo. Quando c’è una crisi economica la spesa sociale diventa più difficilmente sostenibile, perché si riducono le entrate dello Stato ma aumentano i bisogni sociali. Dunque gli Stati sono sottoposti a maggiore stress. Le cose sono andate avanti comunque benino, con una generale minore attenzione nei confronti del Sud del mondo. I Paesi a basso e a medio reddito erano stati invitati a redigere dei programmi strategici di riduzione della povertà. Poi la crisi del Covid è stata molto pesante per tutte le economie del pianeta, immaginiamo per il Sud del mondo. Ancora una volta ha ridotto le entrate fiscali, che sono poi lo strumento che i Paesi utilizzano per onorare i loro debiti. Il risultato è che molti Paesi, sia a basso sia a medio reddito pro capite, si sono trovati in una situazione di indebitamento. Durante il Covid i Paesi del G20 hanno messo in atto una sospensione del servizio del debito, ossia la somma di rate di rimborso e interessi. Non veniva richiesto ma non veniva cancellato. Semplicemente si sospendeva in attesa della fine della crisi. Oggi quella fine della crisi è arrivata, per cui da diverso tempo i Paesi hanno ripreso a pagare.

La situazione è migliorata oggi?
No. La situazione non è affatto migliorata, per questo da molte parti della società civile, da molti governi del Sud del mondo e oggi dal Papa c’è di nuovo una richiesta di intervento. Il punto è che oggi è più difficile intervenire. Perché durante il Giubileo del 2000, paradossalmente, anche se la situazione era per certi aspetti più grave come incidenza del debito, i creditori erano tutti soggetti pubblici, ossia governi, Banca Mondiale e Fondo monetario. Fu perciò relativamente facile proporre la cancellazione. Così facemmo e ottenemmo un consenso. Oggi i creditori non sono più solo i soggetti pubblici, oppure sono soggetti pubblici che spesso si negano a questo tipo di ragionamento, ad esempio il governo della Cina, che esita ad entrare in dinamiche di concertazione ma segue logiche, legittime, di comportamento strategico. E c’è una grossa componente di crediti privati.

Cosa accadrebbe se i Paesi più ricchi cancellassero il debito?
Se i Paesi del G7 o del G20 cancellassero il debito senza altre condizioni, la migliore capacità finanziaria dei Paesi che beneficiano di questa cancellazione potrebbe essere utilizzata per pagare i debiti verso i privati, che spesso si sono comportati come degli avvoltoi.

Per questo c’è una certa resistenza da parte dei creditori che potrebbero essere più disponibili. Non vogliono fare iniziative che portano beneficio a coloro che in questi anni sono stati più spregiudicati.

Presso le Nazioni Unite c’è la richiesta di creare un meccanismo multilaterale di definizione delle necessità di ogni Paese con pubblici, privati, per regolare le situazioni non gestibili. È però una proposta difficile da realizzare per mille difficoltà istituzionali, legali e politiche.

Quali sono oggi i Paesi più indebitati?
Un po’ tutti i Paesi a basso reddito sono in una situazione abbastanza faticosa. Ci sono alcuni Paesi latinoamericani non a basso reddito che hanno un debito molto alto: per Argentina e Brasile il debito rappresenta oltre l’80% del Pil ma hanno comunque una economia piuttosto robusta.

Tra i Paesi a basso reddito il Sudan ha il debito più alto. Ma anche Mozambico, Angola, Niger, Mali, Algeria, Costa d’Avorio, Liberia, Senegal

hanno un debito superiore al 50% del Pil, un dato piuttosto grave perché le economie sono deboli.

C’è una emergenza debito anche per i Paesi ricchi?
Sul tema del debito c’è una vulnerabilità anche dei Paesi del Nord del mondo, solo che hanno una maggiore robustezza economica, come gli Stati Uniti (110% del Pil), il Regno Unito (100% del Pil) e l’Italia (140% del Pil).  In questo momento abbiamo preoccupazioni di tenuta della finanza pubblica, a maggior ragione con la domanda di aumentare la spesa militare sia in Europa sia negli Stati Uniti.

Però non c’è una emergenza finanziaria internazionale del debito sui Paesi ricchi.

Dopo 25 anni siamo alle porte di un nuovo Giubileo: perché il tema del debito va riproposto e in che modo?
Il tema va riproposto perché ha a che vedere con una dimensione di governance internazionale e di giustizia economica internazionale. L’appello del Papa è stato importante, è qualcosa su cui come società civile stiamo lavorando. Il debito è collocato però all’interno del più ampio tema dell’architettura finanziaria internazionale. Si parla anche di aiuti pubblici allo sviluppo: la proposta dello 0,7% del Pil non è mai stata onorata dai governi. E di protagonismo dei Paesi del Sud del mondo, che se ricevono risorse devono anche essere credibili riguardo ai programmi da realizzare. C’è infine il tema degli squilibri gravi nei meccanismi di tassazione internazionale. Molte multinazionali utilizzano queste asimmetrie per sottrarsi alla corresponsabilità fiscale. Il G20 e l’Ocse hanno proposto una tassa internazionale sulle multinazionali: è uno strumento potenzialmente notevole ma declinato ancora con estrema timidezza. Ha bisogno di essere fortemente rafforzato. Sono tutti elementi da mettere a disposizione delle politiche per lo sviluppo che cercano di realizzare gli impegni e gli obiettivi dell’Agenda 2030.

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