Quelli come lui li chiamano ormai giornalisti di altri tempi, ma io mi rifiuto di accodarmi a questa “vulgata”. Carlo Di Cicco, che ci ha lasciato a 79 anni dopo una breve malattia, era per me il giornalista “tout court”, senza aggettivi, quale dovrebbe essere anche nell’era dei social. Onesto, indipendente, pronto a difendere i propri principi “senza se e senza ma”, mantenendo sempre la schiena dritta. Rigoroso con le fonti e aperto sempre al rispetto del pensiero altrui, anche quando la dissonanza poteva apparire – ad un occhio non allenato – troppo stridente per non suscitare reazioni. Quando vedevo il suo nome brillare sul mio cellulare, sapevo già che avrei dovuto prendermi del tempo per quella chiamata. L’ultima, una settimana fa, con la promessa di continuare quella chiacchierata a Borgo, come avevano fatto altre volte, anche insieme ad altri giornalisti amici. Non erano mai banali, quelle telefonate: erano piene di curiosità per quello che ci accadeva intorno – tipico segno distintivo di un giornalismo di razza – e intrise di stima reciproca. Per me era un vero onore essere considerata una “fonte” affidabile proprio da lui, che ha fatto parte della generazione dei miei maestri. Cinquant’anni di giornalismo, i suoi, vissuti a tutto campo, prima all’Asca, dove da caporedattore ha inventato la figura del “redattore sociale”, e poi all’Osservatore Romano, chiamato a sorpresa dallo stesso Joseph Ratzinger a svolgere il ruolo di vicedirettore lungo tutto il pontificato del papa tedesco, del quale ha saputo dare una magistrale lettura controcorrente – e così attuale oggi, in tempi di tifoserie contrapposte – nel libro “Ratzinger. Benedetto XVI e le conseguenze dell’amore”, scritto nel maggio 2006 per le Edizioni Memori e da rileggere pagina per pagina.
Carlo era un anticonformista per tratto e carattere. L’attitudine a rompere gli schemi gli veniva dalla sua militanza a accanto ai poveri, agli ultimi, nelle periferie in cui aveva scelto anche di abitare. Era figlia della sua scelta nonviolenta che ne ha fatto un obiettore di coscienza finito in carcere per le sue idee. Per questo gli è venuto naturale amare, come il suo predecessore, anche Papa Francesco e il suo magistero, in cui centrale è la denuncia della “cultura dello scarto”. “La Chiesa di Francesco da ospite nel salotto buono è richiamata a farsi ospedale da campo per ogni genere di sofferenti, esclusi, fragili”, scriveva Carlo in uno dei suoi ultimi articoli che, come sempre, mi postava aspettando un mio commento: “Una Chiesa verso il riequilibrio di responsabilità tra uomini e donne, clero e laicato. Più pronta a spendersi per il Regno di Dio e la sua giustizia”.
Quando è stato chiamato a fare il vicedirettore dell’Osservatore Romano, Luigi Accattoli – amico di una vita – lo ha definito “un contadino in Curia”. E il suo è stato, davvero, uno “spiazzamento fecondo”, dimostrato dalla testarda coerenza di tutta la sua vita professionale e umana. Ciao Carlo, mi mancherà la tua voce fuori dal coro, sempre così perspicace e nello stesso tempo umile. Come solo i grandi sanno essere.