Il 15 aprile segna un anno dallo scoppio della guerra in Sudan: un conflitto su cui una buona parte di mondo ha chiuso gli occhi, tranne Papa Francesco che non manca di ricordarlo dopo l’angelus. Anche se noi non ce ne curiamo, gli esiti nefasti si fanno e si faranno comunque sentire. Secondo l’Onu, il Sudan rischia la più grande crisi di fame al mondo con milioni di vite umane in pericolo, in più l’intera regione africana è minacciata dalla instabilità per le conseguenze del conflitto. Il fatto è che, oltre all’immoralità di trascurare una così grave situazione, la stessa – come una bomba ad orologeria – si imporrà alla nostra attenzione in un non lontano domani se non si troverà una soluzione all’uso delle armi.
Questa in breve la situazione: il Sudan è diventato indipendente dal Regno Unito nel 1956. Da allora ha manifestato una politica interna dominata da regimi militari, succedutosi in modo spesso turbolento, orientati al mondo islamico (nel 1957 l’islam è diventata religione di stato e l’arabo la lingua ufficiale). L’etnia araba, islamica, nomade ha la supremazia su quella nera dedita all’agricoltura e nel passato non sono mancati episodi per i quali si è fatto ricorso al termine genocidio. Grande sei volte l’Italia e con una popolazione di circa 45 milioni di abitanti, il Sudan, tra un colpo di stato e l’altro, tra un regime militare e il successivo, ha trovato stabilità nel trentennio di governo del colonnello al-Bashir (1989 al 2019): un regime dominato dal Fronte nazionale islamico, che ha messo al bando tutti i partiti politici e reintrodotto la legge islamica a livello nazionale. Sono stati anni di stabilità armata, con il paese tormentato da rivolte (nel 2011 un referendum ha portato all’indipendenza il Sud Sudan) nonché da tremende siccità e continue carestie: situazione difficilissima sfociata nella sommossa popolare che l’11 aprile 2019 ha costretto alle dimissioni il colonnello e presidente al-Bashiri. Ma la pace non ha messo radici nel paese.
In una manciata di anni si sono poi susseguiti tre colpi di stato: nel 2019, nel 2021 e infine il 15 aprile 2023. La guerra si combatte tra due eserciti distinti: da una parte l’esercito regolare guidato dal generale al Burhan, dall’altra i paramilitari del RSF (Rapid Support Forces) o ex miliziani che hanno combattuto nel Darfur guidati dal generale Dagalo. I due si contendono il potere al posto dei politici: la lotta continua perché non trovano accordo su come integrare le milizie, con quale grado di potere e con quanti rappresentati al governo per l’una e l’altra fazione. I due eserciti contano circa centomila uomini ciascuno: così duecento mila uomini armati mettono in scacco la vita di una nazione intera. Lo fanno in modo pesante: sia riguardo le violenze sulle donne, sia riguardo morti (almeno ventimila) e feriti (almeno centomila) (Avvenire, 20 marzo 2024).
Due sono le crisi oggi in atto: quella legata alla fame e quella legata alle migrazioni.
Riguardo la prima i dati sono tremendi: la fame è a tal punto dilagante che solo il 5% della popolazione sudanese può permettersi un pasto al giorno e il Pam (Programma Alimentare Mondiale) ha dichiarato che, a causa della guerra, è impossibile raggiungere il 90% delle persone che pur stanno affrontando “livelli emergenziali di fame”; almeno 5 milioni di persone si trovano in una catastrofica insicurezza alimentare. La questione si fa più grave se si guarda ai bambini: va infatti tenuto conto che il Sudan ha una popolazione molto giovane, tanto che il 43,7% (pari a 24 milioni) è costituito da bambini e ragazzi da 0 a 14 anni; poco meno di 4 milioni di piccoli sudanesi sono già colpiti da una malnutrizione acuta.
Riguardo la seconda, ovvero le migrazioni, il Sudan ha circa 11 milioni di sfollati interni e circa 4 milioni di sfollati verso i paesi confinanti (Egitto, Libia, Ciad, Sud Sudan, Etiopia ed Eritrea). Oltre alla più grande crisi al modo legata alla fame questa protratta condizione di guerra e guerriglia sta creando anche la più grande crisi di rifugiati. E questo scardina equilibri pregressi poiché il Sudan, prima del 2019, ospitava 1,3 milioni di rifugiati: ora invece dal Sudan si scappa.
La comunità internazionale ha fatto vari appelli per il cessate il fuoco, specie all’inizio del conflitto nella primavera scorsa, ma si è limitata a questo che si sta dimostrando infruttuoso e ininfluente. Del resto il mondo è così: abbastanza grande da credere di poter chiudere gli occhi su simili tragedie, abbastanza piccolo da portarci sulla soglia di casa chi da simili tragedie appena può fugge.
Sudan: guerra fame e migrazioni
Il 15 aprile segna un anno dallo scoppio della guerra in Sudan: un conflitto su cui una buona parte di mondo ha chiuso gli occhi, tranne Papa Francesco che non manca di ricordarlo dopo l’angelus. Anche se noi non ce ne curiamo, gli esiti nefasti si fanno e si faranno comunque sentire. Secondo l’Onu, il Sudan rischia la più grande crisi di fame al mondo con milioni di vite umane in pericolo, in più l’intera regione africana è minacciata dalla instabilità per le conseguenze del conflitto. Il fatto è che, oltre all’immoralità di trascurare una così grave situazione, la stessa - come una bomba ad orologeria – si imporrà alla nostra attenzione in un non lontano domani se non si troverà una soluzione all’uso delle armi.