(da Grado) – “Invece che ‘confinare’ (chiudere l’altro dove lui è e chiudere me dove io sono) un buon metodo è ‘confidare’, cioè rinchiudere nell’altro qualcosa di mio (un segreto, un dono, una presenza che parla), per cui il problema non sono i confini, ma ciò che si muove tra i confini. Confidare è già uscire da un confine. Il cristiano non ce l’ha con i confini, è quello che si muove (o non si muove) tra i confini, la vera inquietudine cristiana”. Lo ha affermato oggi a Grado (Gorizia), don Matteo Pasinato, prete della diocesi di Vicenza e docente di Teologia morale alla Facoltà Teologica del Triveneto, durante la prima giornata di lavori del 44° Convegno nazionale delle Caritas diocesane sul tema “Confini, zone di contatto e non di separazione”, con 600 delegati da tutta Italia. “Cominciamo col restituire al ‘confine’ una buona reputazione – ha detto -: il confine non è anzitutto la ostruzione artificiale della differenza (definire uno spazio da un altro, un dentro da un fuori, un mio e un tuo …), il confine è prima di tutto ‘la condizione naturale del finito’. La nostra condizione umana coincide con il confine di un corpo, di un nome, di una storia, di una cultura di nascita, di condizione più o meno favorevoli di denaro, di salute, ecc. Un ‘confine’ ci dà una semplice consapevolezza: io non sono tutto. Ho dei limiti e sono limitato. E rompere questo ‘limite’ è rischioso. Per cui fa parte della nostra umanità concreta il fatto di onorare questo ‘limite’, che è una grande conversione rispetto alla presunzione di essere senza limiti, impossibile, visto che la vita intera è limitata (la morte)”.
“La lettura cristiana del ‘confine’ parte di qui. Noi siamo limitati e il mondo è limitato – ha proseguito -. Su questa dimensione ‘finita’ dell’umano, non siamo molto allenati dalla nostra cultura e a volte nemmeno dalla nostra spiritualità cristiana. Al contrario, sconfiniamo continuamente: ad esempio sui limiti dell’intelligenza e delle prestazioni tecniche, sta lavorando ossessivamente la scienza”. L’intelligenza artificiale, ha osservato, “è creare qualcosa di artificiale che diventa intelligente: ma quella macchina non fa altro che riprodurre i limiti dell’intelligenza. Trasferire sulla macchina una intelligenza, non è altro che creare ancora una intelligenza finita, limitata, e dunque sbatte sulla parete dell’errore e dell’insufficienza, col vantaggio – però – che potrò dire che è la macchina ad essere limitata. Non è la nostra intelligenza che è limitata. Dal ‘limite’ umano non ci toglierà nemmeno l’intelligenza artificiale. E dunque teniamo caro il nostro ‘limite’, onoriamolo, onorando il fatto che non siamo una macchina”.