“Siamo usciti dalla parrocchia alle 8 del mattino di martedì scorso. In quel momento ho pianto tanto. Io desideravo restare ma le mie condizioni di salute me lo hanno impedito. A Gaza non ci sono più ospedali in grado di fornire cure adeguate. Eravamo in 20, tutti cristiani sfollati nella parrocchia latina e in quella greco-ortodossa. Tra di noi c’erano alcune famiglie che avevano ottenuto un visto di ingresso per l’Australia e quattro studenti che studiano a Madaba, in Giordania”:
inizia così il racconto di suor Nabila Saleh, la religiosa di origini egiziane, delle Suore del Rosario di Gerusalemme, che dopo sei mesi dallo scoppio della guerra tra Hamas e Israele, è stata costretta a lasciare la Striscia di Gaza nei giorni scorsi per fare rientro in Egitto dove è attesa da una serie di cure mediche. Ma il suo cuore e il suo pensiero sono rimasti con gli sfollati ancora dentro Gaza.
Situazione drammatica. Affida i suoi ricordi al Sir, con la voce rotta dall’emozione: “Una parte del nostro gruppo proveniva dalla chiesa greco-ortodossa di San Porfirio e altri, come me, da quella cattolica della Sacra Famiglia. Abbiamo fatto un pezzo di strada in auto fino al Wadi Gaza, che separa la parte nord da quella sud della Striscia. Da lì in poi abbiamo cominciato a camminare lungo la strada che costeggia il mare per diverse ore, in direzione di Khan Younis, ma non è stato facile perché le vie erano interrotte e piene di macerie. Nel nostro tragitto – rivela la suora che in questi mesi ha lanciato continui appelli per un cessate il fuoco – abbiamo visto tanta gente vagare nella vana ricerca di aiuti. Nel nord di Gaza ne arrivano pochissimi e si fa grande fatica a reperire acqua e cibo. I prezzi degli alimenti come la farina sono decuplicati e nessuno o quasi può permettersi di fare acquisti. Nemmeno nei pochi mercati aperti. Tutti nel nord sperano e chiedono di far arrivare i convogli umanitari. La situazione è drammatica. Nella parrocchia latina si cerca di andare avanti con quel che si riesce a reperire e grazie a qualche aiuto esterno”.
“Non volevo morire in strada”. “Muoversi in queste condizioni non è stato facile” racconta suor Saleh impressionata dalla distruzione davanti ai suoi occhi. In questi sei mesi, infatti, uscire dalla parrocchia è stato difficilissimo e solo per bisogni estremi perché il rischio di venire colpiti era altissimo. Come è accaduto a diversi cristiani. Ora al rombo degli aerei israeliani e al sibilo dei razzi di Hamas, al fragore delle armi, “che ci hanno fatto trascorrere giorni e notti di terrore”, si affianca la vista delle macerie. “Dai resti dei palazzi abbattuti abbiamo notato molti cadaveri. L’aria era nauseabonda, irrespirabile, ovunque c’era odore di morte. Intorno a noi sentivamo sparare e avevamo paura di essere colpiti e di morire da un momento all’altro. In quegli istanti – confida la religiosa – ho cominciato a piangere. Avrei voluto tanto tornare indietro, in parrocchia.
Non volevo morire in strada ma nella mia ‘casa’, in parrocchia, davanti l’altare.
Ritornare verso nord non era possibile. Nel tragitto abbiamo superato i check point israeliani, sorvegliati anche da telecamere, passavamo i controlli divisi in gruppi di cinque persone. Non è stato facile. Qualcuno è rimasto indietro ma poi ci siamo di nuovo riuniti tutti”.
Da Khan Younis a Rafah, fino al Cairo. Prima di Khan Younis siamo riusciti a trovare un carretto trascinato da un somaro sul quale abbiamo caricato le nostre poche cose rimaste. Molte le abbiamo lasciate lungo la strada perché non si poteva camminare con tanto peso dietro. Siamo arrivati a Rafah nel pomeriggio ma il confine era chiuso. Intorno a Rafah abbiamo visto enormi distese di tende dove la povera gente vive ammassata con servizi insufficienti. La situazione igienico sanitaria è davvero pesante. In quel momento era urgente trovare un posto dove trascorrere la notte. Grazie all’amicizia di alcuni dei giovani che erano con noi con una famiglia musulmana del posto ci ha permesso di dormire sotto una tenda allestita in un piccolo cortile di una casa ancora in piedi, ad un’ora di distanza dal confine. Questa famiglia, molto gentile e premurosa, si è presa cura di noi, ci ha offerto dell’acqua e del cibo. Così abbiamo potuto riposare un po’. In quelle poche ore che siamo stati nel sud abbiamo notato che la situazione degli aiuti è leggermente migliore che al nord. I convogli umanitari, infatti, riescono ad arrivare nelle zone meridionali della Striscia, ma non oltre. La mattina alle ore 6 eravamo già in fila ai cancelli per entrare in Egitto. Ci sono volute 12 ore per passare la frontiera e altre 8 per arrivare al Cairo”.
Con il cuore a Gaza. “Il mio primo pensiero, guardando Gaza dall’Egitto, è andato alla piccola comunità cristiana che vive sfollata nelle due parrocchie, a tutta la popolazione che paga, soffrendo, una guerra che non vuole, alle vittime delle due parti, ai feriti, agli ostaggi. Il mio pensiero è andato alla nostra scuola del Rosario, la più grande della Striscia con i suoi circa 1300 studenti, quasi tutti musulmani, che non esiste più perché è stata bombardata. E mi sono chiesta: chi potrà ricostruire Gaza? Quando questa terra potrà conoscere un po’ di pace? Cosa ne sarà di questa popolazione sfollata? I leader del mondo tacciono. Perché? Solo Papa Francesco è rimasto a invocare la pace su israeliani e palestinesi. Ogni giorno – ricorda suor Nabila – chiama in parrocchia per sincerarsi delle nostre condizioni, per pregare, per esprimere vicinanza. Cosa accadrà in futuro?
Noi non sappiamo nulla, conosciamo però la preoccupazione delle famiglie per i loro figli che non avranno scuole, ospedali, lavoro, un futuro. Tutto questo non farà altro che alimentare nuove tensioni e preparare nuovi conflitti.
Chi può, chi riesce anche a pagare, cerca di uscire, di andare via in Australia, in America, in Europa, dove un futuro è possibile. Al mondo chiedo: quale sarà il futuro di Gaza?”