Lo stretto legame tra lavoro e preghiera appare una ovvietà. Tutti, infatti, attraverso il lavoro contribuiscono a prendersi cura del mondo e la preghiera è il respiro dell’anima per ogni credente. Perciò non deve meravigliare il fatto che un lavoratore credente preghi e veda nella sua attività molto di più che un mezzo di sostentamento.
Il problema è un altro: come pregare? La preghiera va vissuta fuori dai luoghi di lavoro (in parrocchia, in famiglia, come vorrebbe qualche spiritualista) oppure può essere di casa proprio in quegli ambienti? Per chi vive la professione in modo “libero, creativo, partecipativo e solidale” (Evangelii gaudium 192) sgorga spontanea la gratitudine per un lavoro che fa sentire realizzati. Al contrario, se è esperienza fallimentare di sfruttamento e di degrado umano, il mestiere appare come una maledizione e la preghiera diventa difficile. La qualità delle relazioni fa la differenza. La preghiera stessa del lavoratore subisce l’influsso dell’ambiente in cui trascorre una buona parte della vita.
Pregare è affidarsi a Dio.
Chiede il coraggio di domandare la speranza nel quotidiano. E il lavoro è fatica, oltre che cura del mondo. La spiritualità del lavoro è direttamente connessa con il mistero pasquale di croce e risurrezione, di passione e rinascita. Il sudore e la fatica, tipici di qualsiasi attività professionale, consentono “di partecipare nell’amore all’opera che il Cristo è venuto a compiere” (Laborem exercens 27) e collocano il lavoratore nel disegno della redenzione realizzata da Cristo.
Il lavoro è esercizio di discepolato, per cui non può trascurare la dimensione della preghiera che si affida, alla maniera di Cristo nel Getsemani. Si badi bene, non è la fatica fine a se stessa, che rimane sterile, ma è la fatica assunta per amore a diventare un allenamento alla preghiera. Ecco gli esercizi spirituali quotidiani a cui un operaio è tenuto.
L’attività quotidiana può renderci sempre più umani se è alimentata dalla relazione con Cristo Risorto. La preghiera aiuta a non soccombere nella fatica e negli affanni. Gesù ha invitato a vegliare pregando in ogni momento, mettendoci in guardia da cuori pesanti e affannosi: “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita” (Lc 21,34). Così il popolo d’Israele si è rivolto a Dio perché lo liberasse dalla schiavitù d’Egitto (Es 3,7), che tra l’altro comportava l’assoggettamento a lavori servili e a ritmi impossibili. La preghiera del popolo è stata esaudita attraverso la disponibilità di Mosè a mettersi in gioco in prima persona.
Compito della comunità cristiana non è forse ancora oggi quello di mettersi in ascolto del grido dei lavoratori che lamentano insicurezza, precariato, sfruttamento, caporalato, illegalità, ingiustizia? Queste richieste non possono essere interpretate come una preghiera che sale incessante a Dio giorno e notte perché li liberi da attività disumanizzanti? Non sono anche questi i “gemiti inesprimibili” (Rom 8,26) con cui lo Spirito intercede? Guai a noi se spiritualizzassimo la preghiera separandola dalla vita concreta delle persone! I lavoratori non accettano una Chiesa lontana, fredda, abile nelle sentenze ma incapace di ascolto. Hanno una acuta sensibilità al riguardo… Non è questo il senso del Cammino sinodale della Chiesa e del Giubileo che è alle porte? Non siamo forse chiamati ad essere “pellegrini di speranza” per camminare fianco a fianco e non sopra le teste?
La liturgia eucaristica fa cenno al lavoro durante la presentazione dei doni.
Chi presiede alza il pane e il vino, frutti della terra e “del lavoro dell’uomo” invocando la trasformazione in cibo e bevanda di salvezza. Nell’eucaristia avviene il miracolo che il lavoro in qualche modo opera nel quotidiano: trasformare la materia. La preghiera rivolta a Dio necessita di presentare doni che provengono dalla creazione e dall’attività umana. Non esistono in natura il pane e il vino, ma grano e uva. La cultura e l’ingegno umano sanno convertire quei beni in cibo e bevanda da condividere. Perciò nella liturgia troviamo presenti le diverse forme di preghiera che esprimono trasformazioni: la richiesta di perdono, il ringraziamento, la lode, l’intercessione, la domanda di aiuto. Trovano senso nel profondo legame con la vita.
Il lavoratore che prega indossa lo sguardo contemplativo sulla realtà. Don Luisito Bianchi, prete operaio e scrittore, se ne è fatto interprete con queste parole: “Ecco, Signore, la mia cattedrale […]. Il vapore delle tine è il mio incenso per il sacrificio, la lampada che immetto nel loro ventre luce al mio cammino e lucerna d’olio saturata, gli agitatori e le pompe mai stanchi la voce del diuturno lavoro del Padre”. Splendida metafora: il luogo di lavoro è una cattedrale dove si consuma la liturgia della vita. Le energie dei lavoratori abbelliscono il mondo. Però, la cattedrale può anche essere dissacrata nel sangue dell’oppresso o nell’indifferenza verso l’altro. Unire lavoro e preghiera è un modo per vegliare nella storia. Speranza di pellegrini.
(*) direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei