L’intervista con il nunzio apostolico a Kiev mons. Visvaldas Kulbokas, finisce sempre così, con la recita di un’Ave Maria per la pace, “a nome dei bambini deportati e dei prigionieri che vengono picchiati e torturati senza motivo, a nome anche dei sacerdoti che sono in cattività, dei feriti, di chi ha perso i propri cari. A nome di chi sta vivendo una guerra molto cruenta”. Era la mattina del 24 febbraio 2022 quando ebbe inizio l’invasione delle Forze armate russe su tutto il territorio ucraino. Da allora, il Paese è piombato in un vero calvario. “Ogni giorno – confida al Sir il nunzio – vediamo con i nostri occhi o leggiamo notizie di intere famiglie che perdono la vita. È una guerra che colpisce non soltanto i militari ma i civili. Ed è una sofferenza a cui ci siamo in qualche modo abituati perché è entrata a far parte della nostra vita di tutti i giorni ma ciò non toglie che è una prova enorme. Ed è proprio questo che fa la differenza tra chi vive qui e chi invece non ha questa possibilità di stare vicino alle vittime. Da lontano si può parlare della guerra dal punto di vista teorico e dei principi. Solo stando qui sul posto, si capisce che la guerra è sangue. È sangue che cola. Sono le persone le prime vittime. Sorge allora una domanda: come è possibile che qualcuno possa ancora giustificare un’azione così cruenta che distrugge le vite umane, tutti i giorni, ogni giorno, e non si ferma? Solo stando qui, diventa chiaro che non è possibile nessuna giustificazione”.
A due anni dall’inizio di questa invasione russa su vasta scala, il popolo ucraino è stanco?
È parte del popolo ucraino chi è stato costretto ad emigrare e purtroppo non ha possibilità di tornare alle proprie case a volte perché fisicamente non esistono più. È parte del popolo ucraino chi è impegnato sul fronte o in prima persona o perché ha un familiare che sta difendendo il paese. Fa parte del popolo ucraino anche chi è stato fatto prigioniero di guerra. Alcuni sono civili, alcuni sono addirittura medici, altri militari. Ci si chiede come mai un medico deve essere trattato come prigioniero di guerra, perché un civile deve subire questa sorte? Mi rimangono impressi i racconti di alcuni prigionieri che, attraverso gli scambi, sono tornati a casa. Sono talmente traumatizzati che fanno fatica a vivere una vita normale. Dai racconti che ho sentito, la prigionia è stata un inferno.
Questo vorrei sottolineare: la guerra è un inferno.
Ed è per questo che incoraggio ciascuno ad innalzare preghiere al Signore perché ci aiuti a trovare il modo di fermare questa atrocità.
Quando le truppe russe arrivarono a Kiev, Papa Francesco andò all’ambasciata russa presso la Santa Sede per chiedere di fermarsi. La diplomazia della Santa Sede si è immediatamente messa in moto, fin dalle primissime ore. A due anni da quel 24 febbraio, quale bilancio dare a questa opera diplomatica?
Ho testimonianze personali e anche attraverso terze persone che dicono quanto Papa Francesco personalmente e non soltanto a parole, sia impegnato tutti i giorni in questa ricerca delle vie per riportare la pace. Però finora abbiamo anche visto che questi sforzi sono stati insufficienti. D’altra parte, la Chiesa, il Papa, noi tutti, quali strumenti abbiamo? Abbiamo lo strumento della fede, quindi della preghiera. Abbiamo lo strumento morale, che è quello di alzare la voce in difesa della vita umana. Non abbiamo altri strumenti ma sono strumenti che diventano efficaci soltanto quando vengono ascoltati e evidentemente questo messaggio della Chiesa finora non è stato recepito. Non rimane altro che continuare. La fatica non ha diritto di esistere perché di sangue versato, ce n’è tantissimo. Sia Papa personalmente e la Chiesa, continuiamo e dobbiamo continuare a cercare tutte le vie possibili per la pace.
Se lei si dovesse rivolgere alle leadership, ucraine e russe, che cosa direbbe alla luce di questi due anni?
Che non ha diritto di esistere nessuna azione che minaccia e toglie la vita ad un essere umano. Questo vale per tutti. Quando si mette al centro del nostro pensiero, la persona, i bambini, le loro mamme e i loro papà, certamente non c’è più posto né per un’aggressione né per priorità che a volte si danno alle considerazioni storiche e politiche. È tutta teoria distaccata dalla realtà. L’appello principale oggi è dunque quello di guardare con i propri occhi al sangue che cola. È il segno che parla più degli altri.
Che appello farebbe invece alle leadership europee e all’Unione europea?
Non rassegnarsi alla situazione di fatto, sapendo che quando siamo uniti, non soltanto come Europa ma come umanità, siamo più forti nelle intenzioni di pace. Non è mia competenza parlare di politica o di armi ma da uomo di chiesa mi permetto di sottolineare questa esigenza di una maggiore unità che permette di guardare alla realtà con speranza, rende più coraggiosi e quindi più creativi. Quando l’umanità è più unita, quando ci si riconosce fratelli e si decide di puntare sul positivo che c’è, allora nascono idee, si avviano iniziative e ciò può accadere anche in questo contesto di guerra.
Lei due anni fa disse che non avrebbe lasciato Kiev. Fu insieme all’ambasciatore polacco, l’unico che in questi primissimi giorni, non ha lasciato il Paese in guerra. Come è cambiata da allora la sua vita?
Sono due anni di ritiro spirituale continuo. Non tutti i giorni, ma spessissimo si sentono missili e droni che passano e non si sa mai quando e se qualcuno di questi può cadere sopra le nostre teste. Si percepisce che la vita può interrompersi in qualsiasi momento. Un paio di giorni fa, sono stati trovati i cadaveri di una mamma con i suoi bambini dentro il bagno della loro casa. Li aveva portati lì sperando di poterli proteggere dall’incendio che è divampato. E invece sono bruciati tutti. Può succedere quindi che non c’è nessun posto sicuro in cui andare.
Lei ci crede nella speranza della pace?
Umanamente parlando, oserei dire di no. Perché non percepisco segni sufficienti per la pace. Ma la fede ci dice che abbiamo un Dio che è misericordioso e che nonostante i peccati dell’umanità, è capace di perdonare tutti, anche l’aggressore.