Parte dall’immagine dell’ultima benedizione pasquale Urbi et Orbi di San Giovanni Paolo II, la Domenica di Pasqua 2005, quando, non più in grado di parlare, ha benedetto la folla in piazza con il segno della croce disegnato nell’aria, il Messaggio dei vescovi ungheresi per la Giornata mondiale del malato che ricorre domani. Nel documento, da leggere durante tutte le messe di domani, i presuli osservano che Giovanni Paolo II “dal punto di vista umano era fragile e vulnerabile, tuttavia, visse servendo il Signore fino all’ultimo respiro”.
“L’uomo cristiano – prosegue il Messaggio – non cerca né la sofferenza, né la morte, tuttavia le accetta, con la consapevolezza che la vita terrena è nelle mani di Dio e che il pellegrinaggio sulla terra non è altro che la preparazione all’incontro con il Creatore. A chiunque viva inconsapevole di tutto ciò, le lotte e le sofferenze sembreranno vane e prive di senso”. Avvicinandosi alla fine della vita, o in una condizione di grave malattia, spesso “l’opinione pubblica ritiene che l’unica via percorribile sia favorire l’eutanasia attiva e considerare qualsiasi altra scelta un passo indegno e insensato”. Eppure, avvertono i vescovi, “togliere la vita a qualcuno non è un aiuto”. Nella malattia e nell’agonia “il vero aiuto sono le cure, che attenuano i sintomi, e la vicinanza umana. Possiamo aiutare il nostro prossimo ad ottenere la grazia della buona morte soprattutto affiancandolo ed accompagnandolo nella sua malattia, nell’ultima fase della sua vita terrena. Prendendolo per mano, preparandolo all’ ultimo viaggio, essendogli vicini, curandolo ed attenuandone i dolori”.
“Così come non possiamo decidere della nostra nascita, allo stesso modo – il monito dei presuli ungheresi – non possiamo decidere in modo autonomo neanche della nostra morte. Pertanto, rifiutiamo tutte le forme di eutanasia. Il vero aiuto non è mandare alla morte o accorciare la vita in qualche modo”, ma “stare accanto alla persona vulnerabile, attenuarne le sofferenze ed aiutarla a prepararsi all’ultimo viaggio”. A conclusione la toccante testimonianza di mons. Bíró László, che ha attraversato molte sofferenze, rischiando anche l’amputazione delle gambe.