“Si all’abolizione dei Cpr visto che non danno risultati effettivi. Dal nostro punto di vista sarebbe molto più opportuno fare accoglienze più adeguate e investire risorse sull’integrazione. O in alternativa rendere i Cpr dei luoghi accessibili alle associazioni, in cui vengono rispettati i diritti delle persone”. Così padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, commenta al Sir il suicidio di un giovane guineano di 22 anni nel Centro per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, a Roma. Il ragazzo si è impiccato e ha lasciato un tragico messaggio sul muro. Dopo sono scoppiati tafferugli tra i migranti detenuti e la polizia. “I fatti accaduti mettono in evidenza la fragilità delle persone che sono dentro i Cpr, che vedono il fallimento del loro progetto migratorio e come unica soluzione il rimpatrio – osserva padre Ripamonti –. Le persone possono essere trattenute lì fino a 180 giorni ma i rimpatri effettivi sono molto bassi. Quindi, alla fine è una detenzione senza nessun motivo. Questo evidenzia un sistema molto precario”. Se le persone non si riescono a rimpatriare (magari perché non ci sono accordi con i Paesi di provenienza) dopo 180 giorni tornano sul territorio da irregolari con un foglio di vita.
“Negli anni abbiamo visto molte persone accumulare fogli di via che non determineranno mai il rimpatrio – spiega –. Alla fine, il Cpr è solo una detenzione fine a se stessa. Sarebbe molto più opportuno che queste risorse fossero destinate a strutture volte a favorire un reale cammino di integrazione, anche per chi viene da un Paese per cui non si prevede l’asilo. Si dovrebbe cercare una alternativa che non può essere solo quella del rimpatrio, anche perché molte volte questo non si realizza”. Altrimenti il rischio è che “rimangano sul nostro territorio e vadano ad occupare spazi di promiscuità nelle periferie delle città”. Sugli eventuali rischi per la sicurezza, oltre a sollecitare “indagini adeguate” all’arrivo, padre Ripamonti ricorda che “i dati dimostrano che la maggior parte delle persone che hanno compiuto atti terroristici non sono passati attraverso i barconi. Qualcuna forse sì ma erano persone che nel tempo non si sono integrate perché abbandonate ai margini dei contesti e provavano un grande rancore. Questo ci dice ancora una volta come sia necessario investire sull’integrazione piuttosto che sulla repressione, sul blocco delle partenze o sui rimpatri. Perché questi messaggi non hanno dissuaso le persone dal partire”.