Il Senato approva l’autonomia differenziata: ecco i punti principali

Il disegno di legge governativo per l’autonomia differenziata è stato approvato dal Senato con 110 voti favorevoli, 64 contrari e 3 astenuti. A favore hanno votato le forze di maggioranza e il gruppo per le autonomie, contro Pd, M5S, Alleanza verdi-sinistra e Italia Viva, astenuti i senatori di Azione. Ora il ddl (che si è soliti chiamare con il nome del ministro proponente, il leghista Roberto Calderoli) passerà alla Camera per la seconda lettura

(Foto ANSA/SIR)

Il disegno di legge governativo per l’autonomia differenziata è stato approvato dal Senato con 110 voti favorevoli, 64 contrari e 3 astenuti. A favore hanno votato le forze di maggioranza e il gruppo per le autonomie, contro Pd, M5S, Alleanza verdi-sinistra e Italia Viva, astenuti i senatori di Azione. Ora il ddl (che si è soliti chiamare con il nome del ministro proponente, il leghista Roberto Calderoli) passerà alla Camera per la seconda lettura.

Vediamo dunque alcuni punti caratterizzanti del testo approvato e i principali nodi problematici emersi dal dibattito dentro e fuori il Parlamento. Il disegno di legge intende fissare le coordinate e le procedure per dare attuazione al terzo comma dell’art. 116 della Costituzione, riformato nel 2001, laddove si prevede la possibilità di attribuire “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” alle Regioni a statuto ordinario che ne facciano richiesta. All’attribuzione si provvede con una legge dello Stato “sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”. Le materie potenzialmente coinvolte sono tutte quelle in cui è prevista la legislazione “concorrente” tra Stato e Regioni e che l’art.117 della Carta così enumera: “Rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale”. All’elenco vanno aggiunte tre materie su cui lo Stato ordinariamente detiene l’esclusiva della legislazione: organizzazione della giustizia di pace; norme generali sull’istruzione; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.

Un elenco di grande ampiezza, che comprende materie di rilevanza nazionale e persino internazionale. Va inoltre sottolineato che le tre Regioni con cui finora lo Stato ha sottoscritto accordi preliminari (altre si sono mosse nel frattempo) hanno chiesto l’autonomia rafforzata in tutte le 23 materie (il Veneto) o in buon parte di esse (20 la Lombardia, 16 l’Emilia Romagna). Questo aspetto è stato ed è motivo di polemica politica. Il testo del ddl, infatti, contiene espliciti riferimenti ai principi di unità e indivisibilità della Repubblica, ma le opposizioni e i critici rilevano con preoccupazione i rischi di frammentazione e disgregazione istituzionale. Così pure sul versante socio-economico, il testo del ddl richiama il principio solidaristico e il tema della coesione, ma per le opposizioni e i critici si tratta invece del tentativo di una “secessione dei ricchi”. E’ questo uno dei nodi politicamente più sensibili. Il finanziamento delle funzioni statali trasferite avverrà attraverso una compartecipazione a uno o più tributi erariali maturati nel territorio della Regione. Il problema è come evitare che questo meccanismo finisca per cristallizzare o addirittura accrescere le disuguaglianze esistenti. A questo fine dovrebbero servire i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni da assicurare su tutto il territorio nazionale, promuovendo l’esercizio effettivo dei diritti civili e sociali con interventi perequativi anche nelle Regioni che non richiederanno l’autonomia rafforzata e che hanno una minore capacità fiscale per abitante. I Lep, alla cui introduzione le nuove norme sono subordinate, dovranno essere adottati dal governo con uno o più decreti legislativi entro 24 mesi dall’entrata in vigore della legge (che in questo senso agisce come una legge-delega). Resta però tutto da definire il nodo delle risorse finanziarie ed è uno scoglio decisivo da superare per rendere effettivamente praticabile tutta l’operazione. Il ddl Calderoli stabilisce che da ciascuna intesa con le Regioni non dovranno derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Ma è francamente arduo immaginare come questo possa avvenire.

Per le intese che dovranno essere stipulate con le Regioni si prevede un iter piuttosto complesso. In sintesi, si svolgerà un negoziato tra il governo e ogni Regione che avrà chiesto l’autonomia rafforzata. Sarà il Consiglio dei ministri ad approvare un’intesa preliminare e su di essa esprimeranno un parere la Conferenza unificata (i rappresentanti delle autonomie locali) e le competenti commissioni parlamentari, le quali si esprimeranno con “atti d’indirizzo”. Il presidente del Consiglio, però, non sarà tenuto a conformarsi a questi atti e potrà decidere altrimenti, riferendo alle Camere sulle motivazioni di tale scelta. La palla tornerà quindi al Consiglio dei ministri per deliberare sullo schema definitivo dell’intesa (dopo un ulteriore negoziato con la Regione, se necessario) che sarà allegato a un apposito disegno di legge di approvazione dell’intesa medesima. Questo ddl sarà presentato alle Camere che dovranno approvarlo a maggioranza assoluta. Anche su questa procedura sono state sollevate critiche perché di fatto il Parlamento non potrebbe entrare nel merito dell’intesa e dovrebbe limitarsi ad approvare (o respingere) il testo così com’è stato elaborato nel negoziato tra governo e vertici regionali. Ma l’argomento è molto controverso.

Le intese potranno durare al massimo 10 anni, con possibile rinnovo. Nelle disposizioni finali viene fatta salva la clausola che prevede l’esercizio di un potere sostitutivo del governo, secondo l’art.120 della Costituzione, in caso di inadempienze delle Regioni in materie gravi (trattati internazionali, sicurezza e incolumità pubblica, tutela dell’unità giuridica ed economica, livelli essenziali delle prestazioni sociali, ecc.). Le nuove norme si applicheranno anche alle attuali Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano, in attesa dell’adeguamento dei rispettivi statuti, “per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”.

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