Democrazia e stato di diritto minacciati; libertà dei media e di espressione non di rado calpestate; mortificati i diritti di talune minoranze, ma anche di donne, bambini, persone con disabilità, persone Lgbtiq+. E si sta parlando di Europa. L’ennesimo allarme è stato lanciato dal Parlamento europeo che, durante l’ultima sessione plenaria ha approvato una risoluzione (391 voti favorevoli, 130 contrari e 20 astensioni) precisamente intitolata “Situazione dei diritti fondamentali nell’Ue nel 2022 e nel 2023”.
Si tratta – è bene specificarlo – di un testo non vincolante sul piano giuridico;
eppure importante perché lascia trasparire le problematiche avvertite dagli eurodeputati dei 27 Stati membri e dall’Europarlamento nel suo insieme. Una risoluzione, dunque, dal valore socio-culturale e politico allo stesso tempo.
Nelle 23 pagine del documento si trova di tutto: dall’allarme per la diffusione della corruzione all’uso di spyware, dalla violenza domestica alle pressioni su alcune comunità religiose, dalla marginalità sociale delle comunità rom alle discriminazioni verso migranti e rifugiati. Un documento che i Paesi aderenti all’Unione europea dovrebbero prendere seriamente, perché, al fondo, c’è l’interesse per i diritti dei cittadini: alla libertà, alla salute, all’istruzione e altro ancora. Non mancano specifici richiami ad alcuni Paesi, fra cui Grecia, Ungheria, Polonia, Spagna, Cipro.
Tra gli altri aspetti che destano preoccupazione figurano le minacce alle libertà di associazione (comprese – si sottolinea – le violenze della polizia e gli arresti di massa); gli incidenti causati dall’appartenenza religiosa e su base razzista; la codificazione dei respingimenti nel diritto nazionale; gli attacchi ai diritti sociali, economici e ambientali (ad esempio povertà ed esclusione sociale, povertà digitale); gli attacchi all’indipendenza della magistratura…
Nel caso dell’Ungheria, il Parlamento invita il Consiglio europeo a determinare se il governo di Budapest “abbia commesso gravi e persistenti violazioni” dei valori dell’Unione a norma dell’articolo 7 paragrafo 2 del Trattato Ue, e condanna “l’uso sistematico, da parte delle autorità ungheresi, della comunità Lgbtiq+ come capro espiatorio”.
Altro aspetto posto in evidenza è la “disparità nel riconoscimento della genitorialità nell’Ue”,
chiamando indirettamente in causa il nodo della maternità surrogata, riconosciuta in alcuni Stati e non in altri (Italia compresa).
Torna poi come sempre la questione dell’interruzione della gravidanza, che si vuole “legale e sicura”, giungendo – e non è certo la prima volta – a definire l’aborto come un “diritto”. Al paragrafo 34 il Parlamento europeo “condanna fermamente la negazione dell’accesso all’assistenza all’aborto sicuro e legale, che costituisce una forma di violenza di genere”; “evidenzia che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che le leggi restrittive in materia di aborto e la loro mancata applicazione violano il diritto delle donne all’autonomia e integrità fisica”. Poi si chiama in causa la Polonia quando l’Assemblea “ribadisce la sua condanna nei confronti della legge polacca che impone un divieto pressoché totale dell’aborto”; e “ricorda che i cittadini non dovrebbero essere perseguitati per aver aiutato le donne ad accedere all’assistenza all’aborto qualora questa non sia disponibile in modo gratuito e legale”; il Parlamento ribadisce poi “il suo appello a includere il diritto all’aborto nella Carta” dei diritti fondamentali dell’Ue.
Ancora una volta in sede Ue si affrontano temi che non sono di competenza comunitaria
bensì nazionale (aborto in primis). E nuovamente l’interruzione della gravidanza si vorrebbe far passare come un “diritto” anziché come una difficilissima scelta della donna (o di entrambe i genitori), che spesso diventa un dramma. E non c’è dramma – personale e sociale, come nel caso dell’aborto – che possa essere ritenuto un diritto.