“L’auspicio è che anche questo luogo di ricchi e potenti apra gli occhi e le orecchie all’ascolto dei più poveri”. È quanto chiede Paolo Beccegato, coordinatore del Servizio Cei per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli, in una intervista al Sir a conclusione del World economic forum di Davos, che ha riunito dal 15 al 19 gennaio decine di capi di Stato e di governo e migliaia di imprenditori, ministri delle finanze e governatori delle banche centrali per discutere del tema “Ricostruire la fiducia”. Beccegato ha notato “negli ultimi anni una grandissima volatilità, con fenomeni improvvisi e imprevedibili come la pandemia e le due ultime terribili guerre, con una grande polarizzazione del mondo e blocchi che si allontanano tra loro. Questo rende il contesto geopolitico internazionale frammentato e imprevedibile, tanto da lasciare una sensazione di grandissima incertezza. Anche a Davos difficilmente riescono a fare proiezioni nel lungo periodo. Siamo tutti nella stessa barca”. Sul fronte disuguaglianze nel mondo secondo Beccegato “la cosa più grave è che c’è una crescita molto forte del lato alto della forbice (i più ricchi), mentre l’altro lato della forbice non cresce o diminuisce. Perché se i poveri nel contempo migliorassero la loro situazione, almeno ad un livello di dignità umana, questo scandalo sarebbe meno grave. Purtroppo invece succede il contrario. Temo che difficilmente a Davos saranno prese in considerazione le proposte di una azione sul reddito. La distanza tra questo tipo di lettura del mondo e quella che noi vediamo è abissale. Non mi aspetto una volontà decisa di far fronte a questo fenomeno”. Nonostante tutto, prosegue, questi vertici ad alto livello hanno ancora senso “perché sarebbe necessaria una governance globale dei fenomeni. Il fatto che ci siano luoghi di scambio è positivo, perché chiudersi nei propri orticelli sarebbe anche peggio. Il multilateralismo dall’alto e dal basso è la via maestra per affrontare queste situazioni con la partecipazione di tutti”. Sul fronte conflitti, invece, “le ultime due guerre oltre all’impatto economico e finanziario hanno avuto un grandissimo impatto umanitario sui civili – ricorda -. È passato tra le pieghe di Davos il fatto che il costo delle guerre consiste in spesa pubblica crescente, ad esempio per finanziare la difesa degli ucraini dall’aggressione russa. E questi costi aumentano il debito pubblico di tutti i Paesi, anche quelli occidentali. Quindi lasciamo alle generazioni future anche il debito”. “Nel fare le guerre – osserva – ci sono interessi politici, di consenso e visibilità che prevalgono anche sugli interessi economici dei Paesi, quanto meno nel medio e lungo periodo. Nel breve periodo un settore industriale può andar bene ma in tutta la nazione le cose vanno male. A lungo termine per mantenere l’industria bellica o farla fiorire significa che si sta tagliando in altri settori vitali come istruzione e sanità oppure si aumenta il debito pubblico, con una conseguenza per le generazioni future. Complessivamente le guerre non sono solo un danno ma anche un costo”.