“Betlemme e la Terra Santa sono di tutti, non solo dei palestinesi, appartengono anche a cristiani, musulmani ed ebrei. Ho 63 anni e, per la prima volta, non ho festeggiato il Natale, non ne ho sentito la gioia”. A parlare al Sir è Nasri Kumsieh, laureato in architettura al Politecnico di Milano, una lunga carriera professionale a stretto contatto con il presidente Yasser Arafat, per il quale ha progettato una serie di palazzi presidenziali in tutte le province palestinesi. Nasri oggi vive a Beit Sahour, città confinante con Betlemme, nota per essere il luogo dove, secondo il Nuovo Testamento, un angelo annunciò la nascita di Gesù ai pastori. La guerra a Gaza e le dure restrizioni imposte da Israele, dopo il 7 ottobre, giorno dell’attacco terroristico di Hamas, hanno di fatto spento ogni luce di festa a Betlemme e nei centri limitrofi. Niente alberi decorati, nessuna luminaria, nessun pellegrino, hotel e negozi di souvenir chiusi ovunque, per l’ultimo Natale che sarà ricordato come “il più triste di sempre”.
La maggior parte dei cristiani locali, impiegata nel settore del turismo religioso, da oltre 100 giorni è senza lavoro, senza aiuti e sussidi dall’Autorità nazionale palestinese. Unica eccezione un piccolo gruppo di pellegrini, 9 sacerdoti dalle diocesi di Milano, Piacenza e Cremona, organizzato da Diòmira Travel, che nei giorni scorsi è giunto, tra la grande sorpresa dei betlemiti, proprio nella città natale di Gesù. I primi pellegrini italiani in Terra Santa dal 7 ottobre.
Abbandonati da tutti. Nasri ripete le stesse parole rivolte ai “benvenuti” sacerdoti italiani: “Sono greco-ortodosso, mia moglie è cattolica e siamo abituati a celebrare ogni Natale, quello cristiano, l’ortodosso e, infine, l’armeno. Come cristiani ci sentiamo abbandonati da tutti, così come Cristo sulla Croce. Ma sappiamo che c’è sempre una luce di speranza, e questa, oggi, è rappresentata dai pellegrini che arrivano qui nei Luoghi Santi. Sieti i primi che vediamo dallo scoppio della guerra”. Ma Nasri sa bene che la speranza risiede anche nella fine della guerra a Gaza, l’ultima di un conflitto lungo oltre 75 anni. “Abbiamo il diritto di vivere come tutti i popoli del mondo – è la sua rivendicazione -.
Noi palestinesi stiamo pagando la bolletta dell’Olocausto perpetrato ai danni degli ebrei in Europa.
Gli ebrei vivevano tranquillamente nei Paesi arabi, erano cittadini come gli altri. Ancora oggi nel parlamento palestinese ci sono due deputati ebrei palestinesi. Inoltre a Nablus ci sono circa 4mila ebrei con passaporto palestinese. A differenza di quanto si legge in tanti giornali noi palestinesi non possiamo essere antisemiti perché siamo anche noi figli di Abramo”. Gli orribili fatti accaduti il 7 ottobre hanno riproposto la questione palestinese che pure aveva avuto “una positiva evoluzione con gli accordi di pace di 30 anni fa a Oslo, poi Madrid e Washington. Purtroppo – annota Nasri – tutto si è fermato e il mondo è in silenzio che guarda i coloni ebrei mentre occupano le terre in Cisgiordania”. “Gravissimo”, poi, “ciò che sta accadendo a Gaza, dove è in atto un vero massacro, con morti, feriti, bombardamenti, case, ospedali, chiese, moschee distrutte. Gli aiuti vengono centellinati, nella Striscia di Gaza ci sono 2.3 milioni di persone che stanno morendo davanti gli occhi del mondo. E nessuno che alzi la voce”.
“Da cristiano – ribadisce Nasri -, so che la pace è nata qui a Betlemme, con Gesù Cristo, e qui rifiorirà. Un giorno anche noi palestinesi avremo la nostra indipendenza, vivremo in pace vicino ad Israele. Ma abbiamo bisogno dell’aiuto della Comunità internazionale”.
“Non si tratta di perorare la causa di un partito politico o di uno schieramento palestinese, come potrebbero essere Fatah o Hamas – spiega -. In ogni popolo ci sono degli estremisti e dei fanatici, sia tra gli israeliani che tra i palestinesi, noi vogliamo solo vivere in pace in uno Stato indipendente e sovrano”. Per Nasri la soluzione “Due Popoli Due Stati” è “l’unica possibile”.
Charlie Abou Saada, esponente della Chiesa melkita di Betlemme, parla di “crisi di identità” che i cristiani locali stanno attraversando: “Siamo arabi ma non stiamo con Hamas, vorremmo essere filo ebrei ma non riusciamo ad esserlo perché ci occupano le terre. Come discepoli di Cristo siamo chiamati ad amare i nostri nemici ma non è facile”. Ci sono speranze di pace? “Noi palestinesi vogliamo vivere ed essere trattati da veri esseri umani. Finché permane questa situazione non c’è la minima possibilità di raggiungere una pace giusta. La pace nel mondo passa per la Terra Santa”. Abou Saada lancia un appello alla preghiera: “Pregate per la Chiesa di Terra Santa che soffre tanto, pregate per i cristiani di Gaza, in mezzo al disastro totale. La chiesa locale è fortemente indebolita dall’occupazione israeliana e l’unica soluzione è la giustizia che significa dare a ogni popolo ciò che gli spetta”. “Ad oggi – ammette Abou Saada – non vediamo luce in fondo al tunnel. Se si parla con i giovani di Betlemme tutti diranno del sogno di andare via, in cerca di un futuro dignitoso. A Betlemme non abbiamo nulla, né petrolio, né gas, abbiamo solo la Natività grazie alla quale i cristiani resistono e sopravvivono. Ma senza pellegrinaggi sarà morte certa. Preghiamo per nuove leadership politiche coraggiose e capaci di migliorare la situazione”.
“Il 7 ottobre si è svegliato il mostro dell’odio”. “Il 7 ottobre si è svegliato il mostro, si è svegliato l’odio, e tanti innocenti stanno pagando con la vita” incalza Maryam (nome di fantasia, ndr.), giovane madre di famiglia di Betlemme, che riprende le parole di Nasri e di Abou Saada. “Non possiamo fare niente, solo pregare”, dice al Sir rivelando di aver scritto un messaggio ai suoi amici che le chiedevano cosa stesse accadendo a Betlemme dopo il 7 ottobre ma di non averlo spedito per timore di essere rintracciata dall’esercito di Israele. “Qui non è permesso esprimersi, siamo controllati da Israele – denuncia -, a Betlemme in molti stanno pensando di andare via, ma io e la mia famiglia non vogliamo farlo, perché questa è la nostra terra! Questa è la terra santa! La terra amata”.
“Quello che stiamo vedendo – dice con voce strozzata – è troppo. In molti crediamo che dopo Gaza toccherà alla Cisgiordania, così arriverà anche il nostro turno”.
“Se parlo rischio la vita, rischio quel poco di libertà che mi è rimasta – conclude -. Solo a immaginare il futuro mi fa piangere! Mi fa male vivere in questo mondo. Sembra che siamo nati senza valore. Ma di una cosa sono certa: questa è la nostra croce. E come Gesù ha portato la sua fin su il Calvario noi portiamo con amore e fede la nostra. Per questo abbiamo deciso di restare nella nostra Terra Santa e percorrere un’altra lunga via dolorosa. Penso alla sofferenza dei cristiani di Gaza, è anche per loro che restiamo e resistiamo”.