La situazione in Ecuador è drammatica. La violenza dilaga. Ne parliamo con padre Marcelo Farfán (nella foto), 60 anni, 41 dei quali di sacerdozio, ispettore dei Salesiani nello Stato sudamericano e profondo conoscitore delle dinamiche che hanno portato al caos nel suo Paese. “La situazione qui è grave ed è stato dichiarato il conflitto armato interno”.
Come sta reagendo la popolazione?
È in preda alla paura. Nel Paese le scuole, la maggior parte delle aziende, delle industrie e delle istituzioni funzionano solo da remoto perché non si sa cosa potrebbe accadere. Forse non succederà nulla, forse ci sarà un attentato o un rapimento…
Quali sono le radici di tanta violenza?
Sono profonde. Una è il crescente impoverimento della popolazione come risultato non solo della pandemia ma anche del calo dei prezzi del petrolio a livello internazionale. L’Ecuador è un Paese dipendente dal greggio. L’altra causa è dovuta alle politiche sbagliate adottate soprattutto dagli ultimi tre presidenti, che hanno indebolito la capacità dello Stato di controllare narcotraffico e violenza, riducendo gli investimenti: l’apparato di sicurezza è stato ridotto e hanno smantellato strutture governative. A tutto questo si è sommata la diminuzione degli investimenti nell’istruzione. Il risultato è che le bande hanno approfittato dell’impoverimento delle famiglie e dei giovani dei settori popolari. Questi giovani non hanno accesso né al lavoro né all’università. Questo è il brodo di coltura per le bande locali presenti soprattutto nelle aree più popolari della costa ecuadoriana, sul Pacifico.
Oggi ci sono 22 le bande criminali organizzate in lotta tra loro in Ecuador, uno scenario peggiore anche della Colombia dei tempi di Pablo Escobar.
Sì, ma – lo ribadisco – è il risultato dell’impoverimento del Paese, della mancanza di opportunità per i giovani e del disinvestimento nel settore dell’istruzione. Insieme a un quarto elemento: le bande internazionali che, insieme a quelle nazionali, sono riuscite a entrare nell’apparato statale, corrompendo la classe politica e la polizia. Per questo gli ecuadoriani non hanno più fiducia in loro. Purtroppo l’Ecuador è diventato un centro di operazioni del traffico di droga internazionale con la presenza di colombiani, messicani e albanesi.
Quando è iniziato tutto questo?
Quando la Colombia ha firmato la pace con le Farc, che gestivano il lucroso business della droga. I cartelli hanno analizzato la situazione, le Farc sono state smantellate e c’è stata la dispersione di una serie di gruppi che volevano controllare le rotte del narcotraffico. Per loro la cosa migliore è stata venire in Ecuador, un Paese con normative deboli per il controllo del traffico di droga, con una classe politica corrotta e facilità nel controllare le forze dell’ordine. E questo spiega perché il mio Paese esporti droga negli Stati Uniti, in Europa e nel sud del continente, soprattutto in Brasile e in Argentina. Ecco come l’Ecuador si è trasformato in un paradiso per i cartelli della droga e noi siamo sorpresi da quello che vediamo nel nostro Paese, perché non coincide con lo spirito ecuadoriano né con il nostro modo di essere. Ci sentiamo come se fossimo stati invasi da qualcosa di estraneo.
Quale l’impegno di voi Salesiani?
Continuiamo a puntare sull’educazione dei giovani delle fasce sociali popolari. Sulla costa siamo presenti a Manabí e a Esmeraldas, dove lavoriamo in uno dei quartieri dove le bande sono forti e i fratelli salesiani sono molto a rischio. Abbiamo anche una scuola a Guayas e a El Oro dove le nostre case sono uno spazio con più speranza per l’istruzione, per creare opportunità, anche a Guayaquil dove lavoriamo con i bambini di strada. Abbiamo un centro di riferimento a Monte Sinai, in un quartiere popolare. Sono tutti progetti che cercano di stabilire un rapporto con la popolazione e con i ragazzi per evitare che cadano nel traffico di stupefacenti e per dare loro alcune competenze per un inserimento lavorativo.
Quanti sono i Salesiani in Ecuador?
Appena 132, ma è una presenza molto significativa con 22 scuole sulla costa, sulle montagne e in Amazzonia. Abbiamo una università molto importante con 25.000 studenti a Guayaquil, a Quito e a Cuenca e organizziamo giornate per giovani in situazioni di vulnerabilità in 7 città. Per non dire dei tanti centri parrocchiali. Ma lavoriamo anche con la popolazione indigena dell’Amazzonia, sulle Ande, e con gli afro-discendenti. Facciamo quello che possiamo e aggiungiamo il nostro piccolo granello di sabbia, ogni giorno.
*redazione Popoli e Missione