Una storia tramandata tra gli Ebrei racconta di un giorno in cui alcuni giovani discepoli, ansimanti, si presentarono davanti a un vecchio rabbino. “Maestro”, dissero con impazienza, “mentre camminavamo lungo la strada, alcuni ci hanno riferito che il regno del Messia è arrivato”. Il vecchio rabbino, senza proferire parola, si diresse verso la finestra, scrutò sulla strada e, dopo un attimo, chiuse la finestra con un’espressione di rassegnazione, scuotendo la testa. Sembrava dire: se il regno del Messia fosse giunto, avremmo dovuto notare dei cambiamenti; invece tutto è rimasto inalterato: il peccato persiste, l’ingiustizia perdura, la sofferenza continua e le incredulità sono molte.
Se ci pensiamo bene, mentre celebriamo la festa di Gesù Cristo Re dell’universo, nell’ultima domenica dell’anno liturgico, potremmo ritrovarci in un atteggiamento simile alla rassegnazione del vecchio rabbino. Interroghiamoci con sincerità: è davvero reale l’estensione del regno di Gesù a tutto l’universo? La nostra vita è una conferma che tutte le cose sono state ricapitolate in Cristo, come abbiamo espressamente richiesto nella preghiera iniziale della liturgia di oggi? Abbiamo sperimentato un autentico cambiamento nella profondità della nostra esistenza? La nostra vita ha davvero recuperato la bellezza e lo splendore delle sue origini? O dobbiamo forse ammettere, con umiltà, che nonostante le nostre migliori intenzioni, tutto sembra essere rimasto immutato, persistentemente invariato nel corso del tempo?
Il Vangelo di questa domenica è un invito ultimo a contemplare chi è Dio e chi è il discepolo di questo Dio. Quello che emerge è il paradosso divino, la smentita dei nostri sogni ingannevoli. Dio si rivela come il più vulnerabile tra i vulnerabili, sconfitto più di chiunque altro, fragile oltre ogni fragilità. Un re senza trono né scettro, appeso inermemente a una croce, un sovrano che richiede un cartello per essere riconosciuto, un re il cui potere è esclusivamente l’amore, un amore che può risultare sconcertante e sconvolgente.
Di fronte a tutto questo preferiamo aggrapparci all’idea pagana di Dio perché risuona più familiare, ci si addice di più. La “visione pagana” non ci impone la conversione, chiede solo la superstizione; non piega i nostri affetti, ma li accarezza appena. Preferiamo un Dio che si adatta ai nostri schemi confortanti e comodi anziché aprirci alla trasformazione radicale che richiede la vera fede.
Eppure, quando saremo di fronte al Signore, ci chiederà se siamo stati capaci di riconoscerlo non nell’apparenza farisaica ma nell’umiltà, nel debole, nell’affamato, nell’emarginato, nell’anziano dimenticato, nel parente che forse ci è risultato scomodo. Sì, proprio così! La vera grandezza risiede nel riconoscere il volto del Signore nei volti spesso trascurati e marginalizzati dal nostro mondo.
Non dimentichiamo mai che il giudizio finale si baserà interamente sulle ciò che avremo compiuto e sullo spirito che ci avrà animato. La fede non è solo una questione di parole, ma di azioni concrete; la preghiera non anestetizza la vita, ma la trasforma; la celebrazione non si esaurisce nel Tempio, ma continua nella nostra quotidianità, nei cuori e nelle strade della città. Meditiamo insieme sulla saggezza di un grande santo, Bernardo, il quale nel costruire un ospizio su un colle, scelse per i suoi monaci il motto: “Hic Christus adoratur et pascitur”, ovvero “Qui Cristo è adorato e sfamato”. Queste parole ci conducono al cuore pulsante della nostra fede: adorare e nutrire. Sono i due pilastri che sostengono la nostra vita spirituale. Oggi, la regalità di Cristo si manifesta nei nostri gesti concreti, nell’adorazione autentica e nell’attenzione amorevole verso coloro che hanno bisogno di essere nutriti, non solo materialmente, ma anche spiritualmente. Viviamo, allora, la nostra fede con un impegno tangibile, affinché il nostro agire sia riflesso autentico della luce divina che risiede in noi.