“È un dramma. Se ne parla di più, se ne parla di meno, ma la guerra qui ogni giorno fa scorrere sangue. Proprio adesso, mi ha scritto uno dei miei amici militari e mi dice: stanotte sono morti due dei miei. È l’ingiustizia del male. Ti poni sempre la domanda, Signore, ma perché è così? È urgente fermare questa guerra e credo che in questa chiave, il Santo Padre ha invitato tutto il mondo a raccoglierci tutti sotto i piedi di Dio per chiedere la conversione del cuore umano”. Da Zaporizhzhia, parla mons. Maksym Ryabukha, vescovo ausiliare dell’Esarcato arcivescovile di Donetsk, nel Donbass. “In questo primo anno di servizio episcopale mi sono mosso tantissimo”, racconta, “ho cercato di raggiungere tutte le quattro regioni dell’esarcato di Donetsk accessibili e sotto il controllo ucraino, per poter incontrare, abbracciare, stare insieme con la nostra gente. Nell’ultima settimana ho visitato la regione di Donetsk, lungo la linea di combattimenti”.
Chi è rimasto in queste zone? E come vivono?
La maggior parte della gente sono gli anziani. Molti di loro hanno tentato di rifarsi una vita altrove ma spesso soprattutto per la gente anziana è difficile immergersi in realtà nuove e poco alla volta stanno ritornando alle proprie abitazioni. Dicono, “meglio morire qui, a casa, che stare altrove e sentirci di peso per gli altri”. Ci sono poi le famiglie dove ci sono dei disabili, difficile da spostare, e che richiedono l’assistenza di qualcuno.
E poi – e questo mi tocca il cuore – ci sono persone che deliberatamente hanno scelto di rimanere per rendersi cura degli altri. Li chiamo i volontari del cuore.
Cibo, acqua, medicine riescono ad arrivare?
A dire la verità adesso è un periodo in cui gli aiuti umanitari diventano sempre minori. E beni come cibo, vestiti, medicine, scarseggiano. È una sfida per noi. Anche perché stiamo passando dall’estate alla stagione invernale e il passaggio qui da noi è molto veloce: nel giro di una settimana si passa dai 24 gradi di giorno a meno 3 gradi di notte. Si cerca di fare tutto il possibile. Siamo un popolo capace di aiuto e sostegno reciproco, in cui si cerca di non lasciare nessuno da solo. Ma ci sono purtroppo zone inaccessibili in cui non è più possibile ad arrivare. E allora mi pongo tante domande: cosa sta succedendo adesso sui territori occupati? Lì, per esempio, il dramma dell’accesso all’acqua potabile è grande. Quando penso ai territori occupati, mi tornano alla mente gli anni ‘30 quando hanno fatto morire di fame milioni di persone e il mondo guardò impotente. Anche oggi, non sappiamo niente di quello che sta accadendo lì. E questo è un dramma, grande.
Si sa qualcosa invece dei due padri redentoristi catturati?
Purtroppo finora non abbiamo avuto nessuna notizia su come e dove stanno. Niente. Non si riesce ad avere nessun contatto. Anche questo è un dramma che non vive solo la Chiesa. Insieme a questi due sacerdoti, ci sono tantissimi civili catturati dai russi di cui non si sa né dove stanno né come si possono aiutare. Mi hanno spiegato che se per i prigionieri militari c’è un sistema di scambio, per i civili questo modello non funzione, per un semplice motivo, gli ucraini non imprigionano i civili russi.
Il mondo è in preda ad una violenza globalizzata che, come diceva lei prima, ci riporta indietro nel tempo. Cosa è successo?
Abbiamo perso lo sguardo di Dio sul mondo. Abbiamo perso il senso di appartenenza all’unica famiglia umana. E allora quando ti chiudi dentro di te, tutti gli altri diventano tuoi nemici. Occorre riconoscersi figli di un Dio che è padre di tutti.
Quale sarà la tua intenzione di preghiera per il 27 ottobre?
Molti drammi ci sono perché nessuno ha più il coraggio di essere responsabile. Discutiamo su tutto ma non siamo capaci di essere padri del mondo in cui viviamo. Riconoscere in noi questa impronta di paternità nei confronti del mondo è importante perché il padre è colui che sa mettere tutti i figli intorno a un tavolo e sa orientare gli sguardi verso soluzioni possibili.