Si parla ancora di diritti violati, di umanità piegata dalla sofferenza, alla 18a Festa del Cinema di Roma. Dopo “Palazzina LAF” di Michele Riondino, sui gravi episodi di mobbing registrati nell’Ilva di Taranto alla fine degli anni ’90, Antonio Albanese con “Cento domeniche” ci racconta il recente crac delle banche popolari in Italia attraverso la prospettiva di un correntista frodato e umiliato. Un film duro, bruciante, che si apparenta alla cinematografia di Ken Loach, dei fratelli Dardenne e di Stéphane Brizé. Un’opera importante e necessaria, che però non lascia spazio alla speranza. Albanese graffia anche come attore, cesellando un ruolo struggente. In cartellone alla Festa anche il bel documentario “Quattro/Quinti” di Stefano Urbanetti, racconto a bordo campo della squadra di calcio Asdd Roma composta da giocatori non vedenti. Un’opera che alterna azione, momenti di spogliatoio e storie personali. Un’opera importante, fresca e coinvolgente, che aiuta ad allargare il campo della riflessione sulla disabilità, andando oltre stereotipi e barriere. Il punto Cnvf-Sir.
“Cento domeniche”
Al di là della maschera comica, nella filmografia di Antonio Albanese c’è sempre stato un filo rosso tematico segnato dall’impegno civile e dall’attenzione agli ultimi della scala sociale. Basta ricordare film come “Giorni e nuvole” (2007) di Silvio Soldini, “L’intrepido” (2013) di Gianni Amelio, “Come un gatto in tangenziale” (2017, 2021) e il recente “Grazie ragazzi” (2023) di Riccardo Milani. Un percorso di riflessione che lo ha portato oggi a scegliere di passare dietro alla macchina da presa con “Cento domeniche” (è la sua quinta regia). Albanese si misura ancora una volta con una ferita sociale, una storia di sofferenza e ingiustizia, che affonda le radici nella cronaca, nella recente storia del nostro Paese. Ha rielaborato gli avvenimenti legati al crac delle banche popolari, divampato nel 2015, raccontando quegli eventi – sfumati ovviamente da riferimenti puntuali – dalla prospettiva di uno dei tanti correntisti che hanno perso tutti i loro beni, i risparmi di una vita di lavoro. Un film denso di sofferenza e di dolente indignazione, che si muove con sicurezza nel perimetro del cinema di impegno civile abitato da tempo da Ken Loach, dei fratelli Dardenne e da Stéphane Brizé. Una produzione Palomar, Vision Distribution, Sky e Prime Video, che sarà nei cinema dal 23 novembre.
La storia. Italia del Nord, Antonio Riva (Albanese) è un operaio specializzato ormai in pensione, che continua ad arrotondare le sue entrare con lavoretti saltuari. Dopo la separazione con la moglie (Sandra Ceccarelli), vive insieme all’anziana madre Sara (Giulia Lazzarini). Quando Antonio viene a sapere che la sua unica figlia, Emilia (Liliana Bottone), ha deciso di sposarsi, si adopera per regalarle il matrimonio dei sogni. Si informa pertanto presso il suo istituto bancario e scopre che i suoi risparmi sono stati investiti non in obbligazioni – come credeva lui – bensì in azioni. Il direttore della filiale lo esorta a non svincolarli e gli propone di prendere un prestito di 30 mila euro per le spese del matrimonio. Antonio si fida della banca, dove è correntista da una vita. Pochi giorni dopo scopre però che l’istituto è nella bufera…
“Quello che Antonio subisce – racconta Albanese – è un tradimento. In quella provincia operosa dove è cresciuto, della banca del paese ci si è sempre fidati. Per tutti la banca è sempre stata il confessionale: conosce vita, morte e miracoli di tutta quella comunità. Ne ha accompagnato la crescita, finanziato il desiderio legittimo di avere una casa propria. Per questo, alla scoperta del raggiro, la prima reazione di Antonio è di incredulità. Poi subentra lo smarrimento e l’angoscia di chi è stato tradito proprio da chi si fidava, la vergogna di non aver intuito quanto stava accadendo”.
L’opera prima di Albanese colpisce e lascia il segno. Anzitutto per la stringente attualità del tema e per l’attenzione, lo sguardo, rivolto alle persone normali, quelli fuori dal palazzo. I semplici correntisti, che finiscono per essere l’ultimo anello della catena dei risarcimenti. Albanese interpreta, dirige e scrive – insieme a Piero Guerrera – la storia di uno di loro, uno dei tanti, che è finito nelle secche della povertà per una crisi bancaria di cui non era stato avvertito, vittima di omissioni e mezze verità. Albanese picchia duro, urla la disperazione sociale di uno, di tanti, che per troppa ingenuità si è rimesso a consigli sventurati. La narrazione corre veloce, intensa, dolente. La traiettoria del personaggio è chiara sin da subito, dall’esplosione del dramma: il protagonista oltre allo smarrimento per aver perso tutto, alla frustrazione per l’impossibilità di provvedere al matrimonio della figlia, matura un crescente senso di colpa, di vergogna.
Albanese regista governa il racconto in maniera sicura e vigorosa per la gran parte del film, sul finale però sembra perdere il controllo delle tante, troppe, emozioni in campo, sterzando repentinamente in una direzione che non lascia spazio alla condivisione. Per dare forma alla sofferenza, consegna infatti il film alla vertigine della disperazione. “Cento domeniche” è un film complesso, problematico, per dibattiti.
“Quattro/Quinti”
Una bella sorpresa viene dal documentario “Quattro/Quinti” scritto e diretto da Stefano Urbanetti. L’opera metta a tema la condizione della persona con disabilità visiva, mostrando non una storia di esistenze dolenti o emarginate bensì offrendo un racconto sociale luminoso, brillante e assolutamente trascinante.
Urbanetti accompagna lo spettatore al seguito di una squadra di calcetto composta per lo più da giocatori non vedenti, la Asdd Roma, lungo le partite del campionato. Assistiamo da un lato ai match, alle trasferte, e al contempo ai momenti di confronto nello spogliatoio tra compagni, con gli allenatori Luca e Sauro. Nella narrazione rientrano raccordi sulle vite dei giocatori, affrontando la questione della disabilità in maniera schietta, sincera e con guizzi di “irriverente” ironia (i riferimenti al concetto di bellezza oggettiva citando l’attrice Angelina Jolie e alla pasta alla carbonara).
“Il calcio – sottolinea il regista – nella sua purezza conserva ancora un linguaggio universale che appassiona tutto il mondo, generazione dopo generazione, accomunando culture e ideologie di ogni tipo diventando molte volte uno strumento di crescita personale e di riscatto. Ma questo strumento non può riguardare solo chi è dotato del senso della vista. Anche per i ‘non vedenti’ il calcio può essere una passione e diventare un’occasione di rivincita e affermazione. È un film sullo sport, ma è soprattutto un racconto sulle persone che lo animano”.
Stefano Urbanetti firma un documentario grintoso e genuino, appassionato. L’entusiasmo che mette in campo nel racconto dell’agonismo sportivo, del calcio, lo usa per abbattere barriere e stereotipi sulla condizione di disabilità. I giocatori protagonisti vivono la loro condizione non come un limite escludente o isolante; non ne fanno un impedimento. Le loro storie si colorano di positività, di energia e entusiasmo, regalando respiro e leggerezza all’opera.
Urbanetti adotta uno stile di racconto diretto, senza filtri, registrando anche espressioni verbali ruvide e colorite, proprie del linguaggio da “spogliatoio”. Racconta la vita vera. Un film che si iscrive a pieno titolo nel sempre più ricco filone narrativo dedicato alla disabilità – tra gli ultimi titoli “Campioni” (2023), “Crazy for Football. Matti per il Calcio” (2021), “I segni del cuore. Coda” (2021) e la serie Rai “Blanca” (dal 2021, 2 stagioni) –, disabilità che si gioca in positivo e non in sottrazione.Consigliabile, semplice, per dibattiti.