La malizia e l’inganno possono essere contrastati solo con l’astuzia. Gesù chiede una moneta a chi si rifiuta di pagare il tributo, a coloro che nemmeno toccano il conio con l’effige dell’imperatore per non peccare di idolatria. E loro la prendono dalle tasche per mostragliela. Ipocriti, rigorosi nelle teorie, flessibili nella pratica, proprio come facciamo anche noi.
E allora Gesù, ancora una volta, con uno dei suoi detti più famosi, sposta l’attenzione dalla dimensione umana a quella spirituale e chiede di soffermarci sul concetto di “restituzione”. Come possiamo rimanere connessi al fiume della nostra dimensione più profonda, affinché il tempo non usuri le nostre aspirazioni iniziali e il nostro cammino ci possa restituire il dono di una vita più aperta e rinnovata, più compassionevole e autentica, orientata a ciò che davvero conta? Restituendo.
La restituzione si fonda sul riconoscimento che tutto proviene da Dio. Il restituire, infatti, è preceduto dal riconoscere, e la restituzione nasce dalla riconoscenza: e non a caso il sostantivo riconoscenza rimanda al conoscere. Si tratta di una catena che prende l’avvio dal conoscere e riconoscere, passa attraverso la riconoscenza e giunge così alla restituzione. È interessante e significativo notare come la lingua italiana metta in evidenza il forte legame tra riconoscere e riconoscenza, suggerendo che il riconoscimento non può rimanere una mera azione razionale, un atto intellettuale che accerta la verità, ma deve immediatamente trasformarsi in riconoscenza. Questo coinvolge un movimento del cuore, coinvolge l’intera persona, compresi i sentimenti e gli affetti, come la gratitudine e la benevolenza.
Gesù ci ricorda che ognuno di noi è come una moneta con l’immagine di Dio e il suo nome. Restituire a Dio ciò che a Lui appartiene significa trasformare la propria vita in un dono per Lui. La relazione con Dio non dovrebbe essere vista come un semplice dovere o un pagamento di un tributo per vivere nella tranquillità, quasi come se fosse il “pizzo mafioso”, ma dovrebbe invece crescere nella prospettiva della reciprocità e della corresponsabilità. Il livello di maturità e intimità in una relazione è determinato dalla nostra capacità di servire, ossia dal modo in cui condividiamo con i nostri fratelli e le nostre sorelle, a partire dagli ultimi, l’amore che riceviamo da Dio.
Esiste, inevitabilmente, un forte legame tra la fede e la vita sociale. Quando la relazione con Dio diventa sempre più viva e si sviluppa nella prospettiva del dono da accogliere e da restituire, si sviluppa anche una maggiore responsabilità civica nei confronti del bene comune. La famiglia, la comunità e la Chiesa non saranno percepite come entità che ci limitano, ma piuttosto come il nostro rifugio, la cui stabilità e bellezza dipendono dal servizio che forniamo e dalla benevolenza che diffondiamo. Obbedire alla restituzione, quindi, non significa cedere ad un altro lo spazio della propria libertà ma condividerlo con lui. Allo stesso modo, restituire non significa rinunciare a ciò che ci appartiene, ma condividerlo con gli altri. Dovremmo ricordare più spesso la parola di papa Wojtyla: “L’uomo deve essere donato e restituito a Dio, per essere pienamente restituito a se stesso”.