Il Cammino sinodale sta fornendo alla Chiesa italiana l’opportunità di analisi approfondite e una nuova progettualità per stare al passo con il “cambiamento d’epoca” evocato da Papa Francesco. Ne parliamo, soprattutto per quanto riguarda il suo “settore”, con don Bruno Bignami, cremonese, da poco confermato direttore dell’Ufficio nazionale Cei per i problemi sociali e il lavoro.
La pastorale sociale e del lavoro è stata chiamata in causa in questa prima parte del Cammino sinodale? Quali le eventuali riflessioni emerse finora?
Tutte le pastorali si sono sentite interpellate dal Cammino sinodale, compresa quella sociale. Devo riconoscere che in molti l’hanno vissuta come una preziosa opportunità e non come un peso. Volentieri ci siamo messi in cammino. Nei diversi appuntamenti annuali abbiamo dedicato tempo ai Cantieri di Betania, per dare un contributo di pensiero e anche per non disperdere un patrimonio di riflessioni che si muovono all’interno del nostro mondo. Il Cammino sinodale ha fatto emergere la necessità di passare dal “fare” alla “cura delle relazioni”. Si sa quanto sia pastoralmente sterile la serie ripetitiva di attività che non disegna un senso e che non valorizza le persone. Perciò, avvertiamo l’urgenza di creare reti comunitarie. Può andare in soffitta il tempo in cui gli uffici diocesani lavoravano in autonomia senza sintonizzarsi tra loro e deve prendere piede lo stile di lavoro per progetti. Ogni volta che si avviano processi comunitari e si condivide una visione, la pastorale ne esce convertita. Diventa più decentrata. Al centro tornano le persone e non i sogni di grandezza di qualcuno. Altra esigenza molto sentita è il creare comunità territoriali con tutti i soggetti che hanno a cuore il bene comune. Le diocesi si aprono al dialogo ecumenico e interreligioso, e si mettono in relazione con tutti gli ambienti di vita che animano il tessuto sociale di un territorio. Quando si creano momenti di incontro con le amministrazioni, con le imprese e con gli enti del terzo settore, la qualità della vita sociale ne esce migliorata e accresciuta.
L’Ufficio Cei che lei guida ha assunto iniziative in questi due anni per portare i temi e le domande suscitate dal Sinodo all’attenzione della comunità cristiana, delle parrocchie, degli ambienti di vita e di lavoro, nelle associazioni e nei movimenti laicali?
Abbiamo preferito evitare il moltiplicarsi di impegni che sarebbero stati vissuti come una continua replica e un sovraccarico notevole. Così abbiamo utilizzato i momenti di incontro annuali già previsti nel calendario per portare l’attenzione di tutti al Cammino sinodale. Sono stati molto apprezzati i tavoli di gruppi sinodali, soprattutto dagli operatori che vivono la pastorale d’ambiente. Interessanti sono stati ad esempio i contributi del mondo dei marittimi, dei preti operai, dei cappellani ferroviari… Insomma, una grande occasione di dialogo e di ascolto. Molti partecipanti hanno rilevato la necessità di estendere questo metodo anche ai loro ambienti ecclesiali più prossimi, soprattutto associazioni, parrocchie e diocesi. Tutti si rendono conto che la Chiesa evangelizza se sa condividere e se si pone dove scorre il fiume della vita delle persone.
Quali novità o sottolineature le sembrano emergere da tali iniziative?
Uno dei temi più interessanti è stata la centratura sulla spiritualità. Non deve sorprendere se chi si occupa di problemi sociali, lavoro, economia, politica, giustizia, pace e cura del creato senta la necessità di dare un’anima al vissuto. La cosa non è marginale.
La formazione spirituale è il proprium della pastorale sociale.
È diffusa la convinzione che quando si parla di spiritualità si debba mettere in campo la preghiera o la liturgia come “cose da fare”, da aggiungere alla vita che in realtà va per la sua strada, fatta di impegni, di affanni, di affari, di compromessi, di sogni. La spiritualità in salsa postmoderna soffre di deriva estetica: coincide con il benessere psicofisico, con le meditazioni interiorizzanti, con l’adesione a un modello puramente cultuale. Invece, non possiamo mai dimenticare che la spiritualità cristiana o è incarnata o non è. San Paolo parla di “incorporazione” a Cristo, mettendo insieme il legame di fede con il corpo. Geniale intuizione. Nella spiritualità cristiana, perciò, la cura della giustizia scommette sul compimento dei legami umani.
Dai territori, in particolare dalle diocesi, sono giunti segnali di attenzione? Quale, a suo avviso, la mobilitazione “di base” attorno al Sinodo?
Dalle diocesi si è avvertita forte la necessità di mettersi in rete e di confrontarsi. Certo, non mancano ritardi e lentezze, ma la differenza la fanno le persone, come sempre. Quando qualcuno si mette in gioco e crea reti sociali, le cose sono destinate a cambiare in meglio nel giro di poco tempo. Il compito ecclesiale di formare le coscienze ha una vasta gamma di possibilità. Si esprime spezzando la Parola di Dio, condividendo occasioni di confronto sull’insegnamento sociale della Chiesa, entrando nei luoghi di lavoro e offrendo ai giovani il dono di un accompagnamento vocazionale. Il lavoro è molto di più della professione. La politica è molto di più dei risultati elettorali. L’economia è molto di più della produzione di beni. La persona fa la differenza.
Avete in cantiere nuove proposte per proseguire nel cammino sinodale in ambito sociale e lavorativo?
Siamo in cammino verso la 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia che si terrà dal 3 al 7 luglio 2024. La preparazione e i giorni che vivremo a Trieste saranno pensati come parte integrante del Cammino sinodale. Continuiamo ad ascoltare, ma senza dimenticare l’importanza di fare discernimento nella fase sapienziale. Sono due dimensioni fondamentali dell’azione sociale. Organizzeremo tavoli di discussione e di confronto per mostrare che al cuore della democrazia ci sono le gioie e le speranze delle persone, i loro problemi e le loro fatiche. Al centro, la vita.