Una prima riflessione intorno al decreto legge “Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile” approvato ieri dal Consiglio dei ministri, rimanda alle ricerche condotte dalla Scuola di Chicago nei primi decenni del Novecento. Il famoso gruppo di ricercatori sociali americani indagò il fenomeno delle baby gang dimostrando che fattori come la territorialità, la violenza, la marginalità, la mascolinità egemonica, favorissero nei giovani coinvolti la propensione a delinquere. A distanza di un secolo, i contesti di degrado continuano ad esserci e i motivi sono sostanzialmente gli stessi. Tra questi il parco verde di Caivano, luogo ferito, abusato e caratterizzato – per usare le parole del suo parroco don Patriciello – da “un clima di morte e di deserto”.
Il provvedimento governativo comprende inasprimenti di pena, nuove sanzioni e interventi come un commissario straordinario, la costruzione di luoghi di aggregazione, la maggiore presenza di forze dell’ordine o l’assunzione di altri docenti nelle scuole di frontiera. A cui si aggiungono il sequestro del telefono cellulare o l’ampliamento tecnologico del parental control su tutti i device per evitare che i bambini e gli adolescenti possano visionare contenuti violenti e pornografici.
Si tratta di scelte che riflettono soprattutto il primo aggettivo che qualifica il titolo del decreto: urgente. Le decisioni prese nell’immediatezza a seguito di un crimini circoscritti (come il duplice stupro di Caivano) rischiano di avere effetti delimitati e, alla lunga, controproducenti. Il primo limite (e forse il più importante) riguarda la considerazione che questo decreto ha della genitorialità, a cui attribuisce (pena sanzioni pecuniarie o il carcere) la responsabilità di assicurarsi che i propri figli vadano a scuola, non delinquano e non violino i limiti tecnici presumibilmente impostati nello smartphone dei propri figli. Siamo sicuri che un norma coercitiva coincida con un’assunzione di responsabilità genitoriale in territori già sfibrati e inclini alla devianza? Una legge, seppur concepita con le migliori intenzioni, rischia di trasformarsi nell’ennesimo circolo vizioso burocratico, dove alla prescrizione giuridica seguono in successione: la sua trasgressione, il reato, l’indignazione pubblica, l’interesse mediatico e, infine l’intervento istituzionale attraverso la giurisprudenza. Perché – la storia insegna – i limiti sono fatti per essere superati. Soprattutto in contesti in cui l’illegalità non è soltanto una questione strutturale, ma soprattutto culturale. E la cultura – scriveva Pierre Bourdieu – è un insieme di habitus, cioè di disposizioni prodotte dell’interiorizzazione di modelli di comportamento e di pensiero socialmente costruiti. È come se ognuno di noi nascesse nudo (di idee, di scelte, di giudizi) e poi venisse man mano “vestito” culturalmente da coloro che hanno responsabilità educativa: i genitori, la scuola, la parrocchia, la politica, lo sport, i media. È da questi agenti che dipenderanno le condizioni del nostro abito sociale. Su di loro, dunque, bisognerebbe investire con un’azione preventiva ed educativa globale.
La vera emergenza non sono solo quei giovanissimi che, loro malgrado, si ritrovano sporchi di illegalità, ma la cultura inquinata che respirano.
Anche perché, difronte a ogni realtà drammatica, qualunque misura legislativa risulterà insufficiente se non accompagnata da un nuovo modello culturale che consideri l’educazione – lo spiega Papa Francesco (nel videomessaggio ai partecipanti al Global Compact on Education) – “una delle vie più efficaci per umanizzare il mondo e la storia”. Anche quella di Caivano.