Il Sae rappresenta “un’icona di come amerei che si esprimesse l’unica Chiesa cristiana capace di dialogare con le altre religioni perché finalmente ha accettato la dinamica della pluralità delle voci cristiane al suo interno”. Lo ha detto la teologa cattolica Marinella Perroni, fondatrice del Coordinamento delle teologhe italiane, intervenendo a una tavola rotonda su come parliamo di Dio, promossa alla sessione di formazione ecumenica del Sae ad Assisi.
Secondo Perroni la questione del linguaggio su Dio è estremamente complessa. “Il parlare di o su Dio ha sempre utilizzato i linguaggi umani ed è sempre espressione e frutto del multilinguismo. Babele è inscritta nella Rivelazione molto più di quanto facili moralismi ci consentano di ammettere. Se noi ci interroghiamo sul sessismo del nostro parlare di Dio cediamo alla tendenza del momento storico nel quale viviamo, cediamo al linguaggio civile, ma abbiamo non solo il diritto ma anche il dovere di farlo. Ce lo chiede la storia, gli uomini e le donne e soprattutto le generazioni future. Perché oggi il soggetto pensante ed ermeneutico della Rivelazione biblica ha acquisito la consapevolezza di essere intersezionale, la consapevolezza delle sue diverse determinazioni tra le quali quella della sessuazione. Si tratta di una consapevolezza individuale ma anche collettiva, a forte valenza politica”.
“Io credo – ha aggiunto Perroni – che si può dire che Dio ha il volto di chi lo racconta. Il Dio biblico è il Dio raccontato, che si consegna ai linguaggi e alle narrazioni e alla storia. Il Dio delle donne è un Dio diverso. La Rivelazione dice che Dio è di chi lo dice, non esiste al di fuori del suo dirsi, ma il suo dirsi è all’interno dei linguaggi degli uomini e delle donne che in qualche modo ne hanno fatto esperienza. La Bibbia è una raccolta di parole e di silenzi, di pensieri e di azioni di uomini e donne che hanno permesso a Dio di dirsi”.
La Rivelazione, ha osservato la teologa, parla di donne, si consegna a donne. Nel vangelo di Giovanni, strutturato intorno a figure femminili e alle teologie che esprimono, Gesù si rivolge con l’appellativo “donna” anche alla donna sorpresa in flagrante adulterio, anonima ma rappresentativa della condizione prevista per le donne all’interno di un preciso sistema socio-religioso. Mentre le parole di Gesù raggiungono il cuore di una donna vittima di un’ideologia religiosa, chiudono con sovrana autorevolezza anche un contenzioso nel quale volevano trascinarlo i suoi avversari. Difficile supporre che fosse stata colta in flagrante adulterio solo la donna, ha evidenziato Perroni. Quindi è evidente che al centro dell’interesse degli accusatori c’era la pretesa di affermare il diritto di proprietà sulle donne, pretesa messa in discussione da Gesù. Non si tratta di negare la gravità di un adulterio radicato spesso in precise colpe ma non sempre imputabile solo a chi lo compie. Si tratta di pronunciare una parola di misericordia potente ed efficace. In particolare nei Paesi latini il mito delle figlie di Eva persiste, ha sostenuto la teologa, ed è causa di violenza e dolori, femminicidi e processi per stupro. Le donne sono imputate permanenti e riconosciute sempre come causa prima. Poco importa se attraggono o respingono perché la diversità sessuale è vissuta come luogo antropologico di ogni provocazione. Perroni ha concluso: “Il Cristo giovanneo che dice ‘donna’ ha ancora molto da insegnare alle nostre Chiese e alle società che esse hanno contribuito a forgiare”.